GIACOMO LEOPARDI
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
(pagg. 1400 - 1699)
[1400]Così ci accade nel leggere gli
scritti assai forestieri per noi, come degli orientali, di Ossian, ec. o de’
loro imitatori nostrali. Così in cento generi di cose.
Il
pentimento il quale in altri pensieri ho detto che aggrava il male quasi della
metà, quando non possiamo dissimularci che ci è avvenuto per nostra colpa,
aggrava pure nella stessa proporzione il dispiacere della perdita o mancanza di
un bene, anzi molte volte cagiona del tutto esso solo questo dispiacere, che
non proveremmo in verun modo, se mancassimo di quel bene senza nostra colpa, se
non avessimo avuta occasione di acquistarlo ec. Il qual sentimento umano che si
fa sentire o prevedere, nella stessa occasione, e ci spinge, anzi sforza a
profittarne, quasi anche contro nostra voglia, ho cercato di esprimerlo nella
Telesilla. Molte volte un’occasione perduta, ancorchè senza nostra colpa, ci
addolora sommamente della mancanza di un bene, che per l’addietro nulla ci
pesava. Ed allora la nostra consolazione, e l’ordinaria operazione della nostra
mente, è cercare di persuaderci che noi non abbiamo veruna colpa nella perdita
di quella occasione, e che essa non poteva servirci, e doveva necessariamente
esserci inutile, [1401]e quasi non fosse stata ec.
(28.
Luglio 1821.)
Mi
dicono che io da fanciullino di tre o quattro anni, stava sempre dietro a
questa o quella persona perchè mi raccontasse delle favole. E mi ricordo ancor
io che in poco maggior età, era innamorato dei racconti, e del maraviglioso che
si percepisce coll’udito, o colla lettura (giacchè seppi leggere, ed amai di
leggere, assai presto). Questi, secondo me, sono indizi notabili d’ingegno non
ordinario e prematuro. Il bambino quando nasce, non è disposto ad altri piaceri
che di succhiare il latte, dormire, e simili. Appoco appoco, mediante la sola
assuefazione, si rende capace di altri piaceri sensibili, e finalmente va per
gradi avvezzandosi, fino a provar piaceri meno dipendenti dai sensi. Il piacere
dei racconti, sebbene questi vertano sopra cose sensibili e materiali, è però
tutto intellettuale, o appartenente alla immaginazione, e per nulla corporale
nè spettante ai sensi. L’esser divenuto capace di questi piaceri assai di buon’ora,
indica manifestamente una felicissima disposizione, pieghevolezza ec. degli
organi intellettuali, o mentali, [1402]una gran facoltà e vivezza d’immaginazione,
una gran facilità di assuefazione, e pronto sviluppo delle facoltà dell’ingegno
ec.
(28.
Luglio 1821.)
Alla
p.1318. capoverso 1. Si può osservare che la lingua italiana ha coltivata l’antica
filosofia, ed abbonda di scrittori (anche classici) che la trattino o
exprofesso o incidentemente e per solo uso, più di qualunque altra lingua
moderna. Le cagioni son queste. La detta filosofia col progresso delle scienze
si spense. Non vale dunque che altre lingue moderne possano avere avuti più
filosofi e più scrittori ancora dell’italiana. Bisogna vedere in qual tempo.
Ora tutte le lingue moderne sono state applicate alla letteratura ec. assai più
tardi dell’italiana. Quindi pochissimo hanno potuto dar opera all’antica
filosofia. Laddove l’italiana dal 300 al 600, da Dante a Galileo, vale a dire
dal risorgimento degli studi, alla rinnovazione della filosofia, coltivò sempre
la filosofia antica, si arricchì delle sue voci ec. ec. Oltrechè avendo posto
gl’italiani in detto spazio di tempo assai più amore ec. in ogni genere di
studi che qualunque altra nazione, seguita che la filosofia [1403]antica
che dopo quei tempi si spense, fiorisse in Italia più che altrove, dopo il
risorgimento degli studi, coincidendo coll’epoca d’oro della letteratura
italiana. Quindi anche i letterati puri n’erano studiosissimi, e ne solevano
far grand’uso, mossi fors’anche dall’esempio di Dante, loro comune maestro, e
dall’indole di tutti i tempi colti, che hanno sempre dato gran peso alla
filosofia ec. Aggiungete che quelli stessi che nelle altre nazioni trattarono l’antica
filosofia, non la trattarono nelle lingue volgari ma in latino, perchè le altre
lingue volgari, eccetto l’italiana, non si stimavano e non erano allora capaci
delle cose gravi e serie ec. Onde anche la storia fu scritta dal francese
de-Thou in latino, nè si ha, cred’io, storia francese, almeno passabile prima
di Luigi 14.
(28.
Luglio 1821.)
Alla
p.1338. Notate in questo proposito, per dimostrare l’influenza della lingua o
dei nomi sulle cognizioni, che una sufficiente notizia della lingua e delle
proprietà delle voci greche, non solo giova sommamente allo studioso di
medicina per ben conoscere l’indole ec. delle malattie ec. ec. non solo
abbrevia d’assai il detto studio ec. e lo facilita ec., ma forse senza detta
notizia, molte volte, non [1404]dico lo studioso, ma lo stesso medico
non arriverà ad avere di qualche cosa denominata in medicina con termine greco,
un’idea così chiara e precisa, come la concepisce subito il grecista, ancorchè
ignorante di medicina, appena ode quel tal nome. Avendo questa bellissima
proprietà gran parte delle parole greche applicate alle scienze ec. ch’elle son
quasi perfette definizioni delle cose che significano; e questo a causa della
precisione che riceve quella lingua dai composti ec. qualità che nello stesso
grado non si può, generalmente parlando, trovare in verun’altra lingua.
Le
Cinesi si storpiano per farsi il piede piccolo riputando bellezza, quello ch’è
contro natura. Che accade il noverare le tante barbare cioè snaturate usanze e
opinioni intorno alla bellezza umana? Certo è però che tutti questi barbari, e
i cinesi ec. trovano più bella una persona snaturatasi e rovinatasi in quei
tali modi, che una persona bellissima e foggiata secondo natura. Anzi [1405]questa
parrà loro anche deforme in quelle tali parti ec. Dunque essi provano il senso
del bello, come noi nelle cose contrarie; dunque chi ha ragione de’ due? perchè
dunque si chiamano barbari simili gusti?
Non
perchè ripugnino assolutamente al bello, ch’essi vi sentono, come noi vi
sentiamo il brutto; ma perchè ripugnano al naturale. Il bello è convenienza, il
brutto sconvenienza. Ora è conveniente che le cose sieno quali son fatte, ed
abbiano le qualità che loro son proprie: e se la tua natura è questa, tu devi
esser così e non altrimenti. Quello dunque che ripugna alla natura, è
sconveniente. Convenienza e sconvenienza, come ognun vede, relativa al modo di
essere di ciascuna cosa.
Ma il
bello non risulta solo dalla convenienza stabilita dalla natura, anzi può non
risultarne (ed ecco i gusti detti cattivi). Risulta perpetuamente e
necessariamente ed unicamente dall’opinione dell’uomo prodotta dall’assuefazione,
dall’inclinazione ec. Risulta, dico, [1406]dalla convenienza in quanto è
giudicata tale dall’uomo (o dal vivente); e quindi bello non è, se non ciò che
all’uomo par conveniente cioè bello. Così è. Fuori della opinione dell’uomo o
del vivente non esiste nè bello, nè brutto, e tolto il vivente, sono tolte affatto dal mondo, non solo le idee, ma le qualità stesse di bello e brutto, (potendo
però restare il buono e cattivo in quanto giovi o noccia agli altri esseri
ec.).
Siccome
però l’unica cosa durevole e universale, è la natura sì delle cose che di
ciascuna cosa, perciò opinione durevole e universale intorno alla convenienza
ed al bello, non può essere se non quella che è conforme a detta natura, cioè
che giudica conveniente quello che la natura ha fatto e disposto che appartenga
agli esseri. (il che ha fatto e disposto non già necessariamente e
assolutamente ma per solo arbitrio e relativamente.) Quindi è che i gusti non
naturali sia circa la forma degli uomini, sia circa le arti imitatrici della
natura, sia in qualunque altro genere che appartenga alla natura in qualunque
modo ec. tali gusti, dico, si chiamano cattivi, e lo sono; in [1407]quanto
ripugnando alla natura reale (benchè relativa) delle cose, non ponno durare, nè
essere universali. Al contrario il buon gusto, è buono in quanto convenendo
colla natura qual ella è effettivamente, è il solo che possa durare, e in cui
tutti appresso a poco possano convenire.
Quindi
accade che presto o tardi si ride di uno stile, di una pittura, di un
portamento affettato ec. ec. di una persona sfigurata ec. e queste cose si
chiamano barbarie, come si chiamano barbarie tutte quelle cose fuori affatto
della sfera del bello, che ripugnano alla natura, cioè al modo in cui le cose
realmente sono, e perciò denno essere. E qui vedete che la barbarie
consiste sempre nell’allontanarsi dalla natura, e però i popoli civili hanno
ordinariamente buon gusto, perchè la civiltà ravvicina gli uomini alla natura
ec.
Sono
dunque barbari e cattivi i gusti non naturali, in quanto ripugnano alla natura,
non già in quanto ripugnano al bello. Nessun gusto ripugna al bello. Bello è
ciò che tale si stima: bello era nel seicento lo stile de’ concetti e delle
metafore ec. e dava [1408]ai seicentisti quel piacere che dà a noi il
buono stile; e il buono stile non glielo dava.
Eccetto
che, siccome i dettami, la forza, il senso, l’influenza della natura, ponno ben
essere offuscate e debilitate, ma non estinte in verun secolo, e da verun
costume, opinione ec. però è ben verisimile che i seicentisti, sebben
trovassero più bello quello stile barbaro che il buono, pur non ne provassero
quel piacere che proviamo noi del buono, cioè naturale; se ne saziassero
facilmente ec. Questa era conseguenza non del falso bello, che nessun bello è
falso, ma della falsata natura delle cose, che anche in que’ tempi era la
stessa.
Ma
quante ripugnanze colla natura, ci fa passare per belle anche oggidì l’assuefazione
ch’è una seconda natura! Quanto differiscono nel gusto anche i secoli, che nel
grosso e complessivamente son di buon gusto! Quante diverse opinioni intorno a
questa o quella bellezza, o parte di lei, produce la stessa civiltà, che 1. è
diversa e varia ne’ vari luoghi e tempi ec. 2. varia bene spesso dalla natura [1409]medesima,
e non poco! Le quali cagioni non solo ci producono l’opinione, ma il conseguente
senso e gusto del bello, in cose non naturali, in cose anche ripugnanti alla
natura. Quanti abbigliamenti non naturali, quante foggiature snaturate della
persona stessa, quante mosse, portamenti ec. o diversissimi dalla natura o a
lei contrarissimi, ci paiono per l’assuefazione e l’opinione bellissimi, e
bruttissimi i loro contrari, e i naturali! Cani colle orecchie tagliate;
cavalli a coda tagliata ec. ec. Da mille altri generi di cose potrei cavare
esempi di questo.
Non
basta. La natura benchè uniforme nel principale ed essenziale, varia in
moltissime cose accidentali (ma considerabilissime) secondo le razze, i climi,
i tempi, le circostanze. L’Etiope differisce dal Bianco. Il gusto della
scrittura orientale differisce dall’Europeo. Quello de’ Bardi da quello de’
greci. Quello de’ settentrionali moderni da quello de’ meridionali; quello degl’italiani
ec. da quello de’ francesi. E ciascuno di questi, essendo conforme alla natura
rispettiva, è buono per ciascuno dei detti popoli ec. [1410]cattivo per
gli altri; e produce in ciascuno di essi quell’effetto, che produrrà in un
altro popolo un gusto (almeno in molte parti) contrario, il quale viceversa
parrebbe e pare cattivo a quell’altro popolo, tempo ec. Chi ha ragione? Quale
di questi gusti, anzi di queste nature, merita la preferenza? In ogni caso
potrà piuttosto darsi la preferenza a questa o quella natura, che a questo o
quel gusto, il quale da che è naturale, non solo è buono, ma se fosse conforme
a un’altra natura, sarebbe cattivo, e non durevole presso quel popolo; come non
ha durato nella poesia ec. inglese, il gusto francese. E il Catone di Addisson
si stima e non piace in Inghilterra; e quello che per lungo tempo non piace (e
forse non ha mai piaciuto) ad un’intera nazione, non è bello, relativamente a
lei; ed in quanto è fatto per lei, è dunque brutto; benchè piaccia ad altre
nazioni.
Come
dunque altrove abbiamo distinto il bello da ciò che reca diletto alla vista,
così bisogna formalmente distinguere il bello dal naturale. [1411]Non
già che ciò che diletta la vista non possa esser bello, o che il bello non
possa recar diletto alla vista (anzi il bello esteriore e sensibile glielo reca
essenzialmente); ma queste due qualità sono diverse, ed altro è il dilettar la
vista, altro l’esser bello. Così altro è l’esser naturale, altro l’esser bello;
e può una cosa non esser naturale, e pur bella, o viceversa: ed esser naturale
e bella per colui, e naturale ma non bella per costui ec.
(29.
Luglio 1821.)
La
semplicità è quasi sempre bellezza sia nelle arti, sia nello stile, sia nel
portamento, negli abiti ec. ec. ec. Il buon gusto ama sempre il semplice.
Dunque la semplicità è assolutamente e astrattamente bella e buona? Così si
conclude. Ma non è vero. Perchè dunque suol esser bella?
Ho detto
che il naturale è conveniente, e quindi per lo più bello, cioè giudicato
tale. Or dunque la semplicità suol essere, cioè parer bella, 1. perchè suol
esser propria della natura, la quale, (potendo ben fare altrimenti) si è per lo
più diportata semplicemente, coi mezzi semplici ec. ec. (il che
massimamente apparisce dalla [1412]mia teoria della natura) almeno
quanto all’apparenza delle cose. La quale solo bisogna considerare circa il
bello: giacchè la natura forzatamente e contro natura scoperta e svelata, non è
più natura, qual ella è; e quindi non è più fonte di bellezza ec. ec.
2. La
semplicità è bella, perchè spessissimo non è altro che naturalezza; cioè si
chiama semplice una cosa, non perch’ella sia astrattamente e per se medesima
semplice, ma solo perchè è naturale, non affettata, non artifiziata, semplice
in quanto agli uomini, non a se stessa, e alla natura ec.
Per
queste, e non per altre ragioni, la semplicità forma parte essenziale, e
carattere del buon gusto, e sebbene gli uomini se ne possono allontanare, certo
però vi tornano, cioè tornano alla natura, la quale nelle cose essenziali è
immutabile. Perciò le poesie o scritture greche saranno sempre belle, non
riguardo al bello in se stesso, ma riguardo alla semplicità e naturalezza loro.
ec. E quei tempi e quei paesi e quegli uomini che non le hanno apprezzate, o le
hanno disprezzate, si chiamano e furono di cattivo gusto, [1413]non
perchè non conoscessero ec. le leggi eterne e necessarie del bello (come si
dice), le quali non esistono, ma perchè, a forza di assuefazioni ec. corrotte,
cioè non naturali, e quindi non proprie, non convenienti all’uomo, si erano
ridotti a non conoscere o misconoscere, e non sentir la natura, che è veramente
o può dirsi eterna. E però ripugnavano al gusto che solo può durare, ed essere
universale negli uomini, perchè solo ha il suo fondamento nella realtà delle cose quali sono; e il loro gusto, non potendo nè piacere a tutti, nè per
lungo tempo, era falso in quanto a questo, non in quanto a se. Così dico delle
pitture, statue, architetture greche. Così della letteratura italiana, la quale
intanto è universalmente preferita, malgrado le diversità de’ gusti ec. in
quanto, non il bello, ma la natura è universale, e la letteratura italiana è la
più conforme alla natura. E perciò, e non riguardo al bello indipendente, si
considerano e sono modelli di buon gusto le letterature ec. antiche, siccome
più [1414]prossime, anche materialmente alla natura, e quindi più
semplici. ec. Quell’inaffettato, quel dipingere al vivo le cose o i sentimenti,
le passioni ec. e far grandissimo effetto quasi non volendo, è bellezza
eterna, perch’è naturale, ed è il solo vero modo d’imitar la natura, giacchè si
può male imitar la natura, anche imitandola vivissimamente, e l’imitazione la
più esatta può essere anzi è per lo più la meno naturale, e quindi meno
imitazione. V. il mio Discorso sui romantici dove si parla di Ovidio. ec.
Le
vantate, immutabili, ed universali leggi del bello, sono dunque giuste
(complessivamente e quanto all’essenziale); ma non perchè il bello in se stesso
sia immutabile e universale e assoluto, ma perchè tale è la natura, che essendo
natura, è quindi la principale e più solida fonte delle convenienze in ciò ch’ella
contiene, e però del bello. Quindi la teoria delle belle arti (eccetto alcuni
particolari) resta salda, quanto ai precetti ec. benchè speculativamente s’inganni
nei principii fondamentali. Ma l’astrazione generalmente non nuoce nel nostro
caso al concreto: perchè solamente si tratta di chiamar leggi di natura,
necessarie quanto a noi, ma libere quanto a lei, quelle che la detta teoria
suol chiamare leggi assolutamente necessarie del bello. Quindi restano le
regole della rettorica, della poetica ec. restano gl’indizi per distinguere e
fuggire i falsi gusti ec. solamente che si chiamino falsi non in se stessi nè
in quanto al bello, ma in quanto ripugnanti al modo di essere effettivo delle
cose. Ond’è che il principio delle [1415]belle arti ec. ec. si deve
riconoscere nella natura, e non già nel bello, quasi indipendente dalla natura,
come si è fatto finora.
Veniamo
adesso ad alcune considerazioni le quali dimostreranno come la semplicità che
si tiene per qualità assolutamente bella, vari nel giudizio degli uomini e
nella stessa natura. 1. in quanto semplicità, 2. in quanto bellezza.
I tempi,
costumi, opinioni, climi, razze ec. ec. diversificano il giudizio e il gusto
degli uomini intorno alla semplicità niente meno che intorno al bello e al
grazioso ec. Ho detto che la letteratura italiana, la più semplice delle
moderne, è universalmente preferita. 1 Nondimeno è certo che i francesi, come
eccessivamente civilizzati, differiscono sommariamente dalle altre nazioni nel
giudizio di che cosa sia semplice, ed essendo semplice sia naturale, ed essendo
naturale sia bella; quantunque si accordino con tutte le nazioni di buon gusto
nel giudicare che il semplice e naturale è bello, cioè conveniente. Ai francesi
producono l’effetto di somma semplicità, naïveté, (e [1416]quindi
o grazia o bellezza) mille cose che a noi italiani (se conserviamo il gusto
italiano, o l’antico) e anche agli altri, paiono o affettate o certo
ricercate, artifiziate, studiate; o finalmente assai meno vicine alla natura di
quello che paiono ai francesi, e quindi vi sentiamo assai meno grazia e
bellezza, o nessuna, o anche bruttezza; ovvero le riponiamo nel numero delle
bellezze d’artifizio ec. Esempi, La Fontaine, modello di semplicità per li
francesi, Fénélon di grazia, Bossuet di sublimità ec. Ma i francesi tanto
lontani dalla natura sono colpiti da quello che n’è più vicino, benchè riguardo
al nostro stato ne sia per anche troppo lontano. Viceversa quello che a noi
italiani par semplice, naturale, bello, grazioso, ai francesi pare così
eccessivamente semplice, che non par loro naturale, (giudicando, come sempre
accade, della natura, dalla condizione in cui essi si trovano) nè vi sentono
grazia o bellezza, ma viltà, bassezza e deformità. Ed è cosa ordinarissima e
frequentissima che la grazia, la semplicità, la naturalezza [1417]francese,
sia affettazione, artifizio, ricercatezza per noi, e la semplicità ec.
italiana, sia rozzezza per li francesi, intollerabile e ridicola. E pur tutti
conveniamo nel giudicar bello e grazioso il semplice e naturale, come tutti ci
accordiamo nel giudicar bello il conveniente, senza accordarci nel giudicare
della convenienza.
Le altre
nazioni non differiscono meno tra loro, e per gl’inglesi non sarà bastantemente
naturale nè semplice quello che lo è per gl’italiani, e viceversa sarà sconcio
e rozzo per gl’italiani quello ch’è naturale, semplice, naïf per gl’inglesi
ec. ec.
I tempi
differiscono assai di più. Lasciamo stare la letteratura classica greca
paragonata colla classica latina, che pur si formò su di quella. I trecentisti
ci piacciono assai anche oggi, ma oggi chi scrivesse precisamente come loro, in
questa lingua, ch’è pur la stessa, sarebbe giudicato barbaro, e quella
semplicità ec. ec. parrebbe eccessiva, cioè sconveniente, inverisimile, e non
più naturale oggidì, quantunque [1418]la natura in quanto all’essenziale
non si muti. I francesi gustano i latini e i greci, ma si guarderebbero bene
dall’imitarne molte cose, che in quelli non li disgustano, anzi paiono loro
bellezze, perchè le giudicano convenienze relativamente alle circostanze della
loro natura, de’ tempi ec. Del resto non mancano francesi che anche quanto al
bello, antepongano la loro letteratura alle antiche, segno di falso gusto, cioè
allontanato dalla natura, più gradi, che non ne sono allontanati gli altri
gusti. I francesi di buon gusto cioè più naturale, gusteranno anche gl’italiani
classici, sebbene tanto opposti alla loro maniera. Li gusteranno però meno di
quello che facciano (ed effettivamente lo fanno) le altre nazioni, e saranno
offesi di molte che a noi e agli altri paiono naturalezze. Non dico niente
delle letterature e gusti orientali, o selvaggi ec. ec.
Ho
discorso delle sole letterature. Altrettanto va detto delle belle arti, modi di
conversare ec. ec. e di tutto ciò dov’entra il semplice e il naturale.
Ho
notato altrove certe naïvetés francesi che mi paiono affettatissime, non
relativamente, [1419]cioè perch’elle non sieno naïvetés per noi,
ma (dirò così) assolutamente, perch’essendo naïvetés anche per noi, e
vere naïvetés, risaltano e contrastano sopramodo colla maniera e
lo stile ec. di quella nazione, e producono il senso della sconvenienza, almeno
in noi che in questo punto, e nel giudizio della naturalezza (che è tutto ciò
che si chiama finezza di gusto, e che si venera e si consulta negli antichi
maestri ec.), siamo più delicati. Ed ecco come la stessa assoluta semplicità o
naturalezza, che si considera per assolutamente bella, possa molte volte esser
brutta, perchè sconveniente, secondo le circostanze, le assuefazioni, le
opinioni ec. Il che si avvera in milioni di casi, come ho dimostrato. Insomma
tante sono le naturalezze quante le assuefazioni, e quindi lo stesso buon gusto
si divide in tanti gusti, quante sono le assuefazioni ec. de’ tempi e luoghi
ec. e quanto ai particolari non c’è regola generale intorno al bello di
letteratura, arti ec.
Prima di
lasciare il discorso della semplicità, voglio notare che siccome il piacer che
si riceve dal bello, dal grazioso ec. è bene spesso [1420]in ragione
dello straordinario dentro certi limiti, così noi proviamo della semplicità de’
greci de’ trecentisti ec. maggior piacere assai che i loro contemporanei, e
quindi l’ammiriamo di più, e la troviamo assai spesso più bella ec. Così pure
accade secondo le diverse nazioni. Vale a dire che la differenza delle nazioni
e de’ tempi, ossia delle assuefazioni ec. come può diminuire il pregio della
semplicità e naturalezza ec. secondo che ho dato a vedere, così lo può anche
aumentare, e variare intorno ad essa il giudizio e il senso degli uomini anche
in questa parte. V. p.1424. Tanto è vero che tutte le sensazioni umane sono
modificate e dipendono quasi esclusivamente dall’assuefazione e dalle
circostanze ec. V. ed applica alla semplicità quanto ho detto della grazia.
p.1322-28.
Siccome
gl’inglesi hanno una patria, però sono accusati come i francesi di non trovar
bello nè buono se non ciò ch’è inglese, e di un gusto esclusivo per le cose
loro.
(30.
Luglio 1821.)
La forza
anche passeggera del corpo, oltre gli effetti altrove notati, rende anche più
coraggiosi del solito, e meno suscettibili al timore, anche [1421]de’
pericoli straordinari ec. Quindi i giovani sono più coraggiosi de’ vecchi, e
disprezzatori della vita, benchè abbiano tanto più da perdere ec. contro quella
osservazione ordinarissima, che principal fonte di coraggio suol essere l’aver
poco a perdere ec.
Alla
p.512. marg. Ancor noi oltre ove ch’è ubi, abbiamo pur dove che vale il medesimo, ma è quasi de ubi, cioè unde. Siccome gli
spagnuoli per ubi dicono donde (e adonde) che è quasi de
unde. E noi pure oltre onde cioè unde, abbiamo donde,
che per altro vale, non ubi, ma unde.
(31.
Luglio 1821.)
L’attendere
e il riflettere non è altro che il fissare la mente o il pensiero, il
fermarlo ec. Abito che produce la scienza, l’invenzione, l’uomo riflessivo ec.
Abito puro, come facilmente può considerare ciascun uomo riflessivo in se
stesso, e notare ch’egli esercita quest’abito anche senz’avvedersene, e nelle
cose che meno gl’importano, e giornalmente. Abito però poco comune, e però poco
frequenti sono i pensatori, e i riflessivi ec.
(31.
Luglio 1821.). V. p.1434. princip.
[1422]Il sistema di odio nazionale si
vede anche oggidì, sì nelle nazioni che meglio conservano la nazionalità (come
tra i francesi e gl’inglesi ec.), sì massimamente ne’ selvaggi, i quali, come
gli antichissimi, combattono per la vita e le sostanze, non danno quartiere ai
vinti, o menano schiave le tribù intiere, sono in perpetua nemicizia fra loro,
abbruciano, scorticano, fanno morire fra i più terribili tormenti i nemici
della loro tribù ec. ne mangiano le viscere ec. ec. ec.
(31.
Luglio 1821.)
Figuriamoci
la parola commercio in quel senso preciso, e al tempo stesso vastissimo,
nel quale tutto il mondo l’adopra oggidì, nel quale tanto se ne scrive, nel
quale tutti i filosofi considerano e trattano questo soggetto. La Crusca non porta
esempio di questa parola in questo senso, e veramente ella in tal senso non è
classica. Noi abbiamo la voce classica, mercatura che secondo l’etimologia
ec. vale a presso a poco lo stesso. Or dunque sarebb’egli ben detto, le
forze, gli effetti, la scienza della mercatura, in vece del commercio?
Produrremmo noi quell’idea precisa ec. che produce questa seconda voce? l’idea
di quella cosa che (si può dire) nel [1423]passato secolo, si è ridotta
a scienza, e fa tanta parte delle considerazioni del filosofo, e ha tanta
influenza sullo stato delle nazioni, e del genere umano? Signor no: e s’io
dirò, Principalissima sorgente di civiltà si è la mercatura, in cambio
di dire il commercio, non solamente non sarò bene inteso nè dagli
stranieri nè dagl’italiani, ma sarò deriso dagli uni e dagli altri, e massime
da questi. E se le sue Lezioni di commercio il nostro Genovesi le avesse
intitolate Lezioni di mercatura, avremmo noi medesimi potuto ben
rilevare dal titolo il soggetto dell’opera? Così dico del Saggio sopra il
Commercio dell’Algarotti. Ecco quanto importi l’attenersi precisamente alle
parole ricevute, e dalla convenzione precisamente applicate, massime in fatto
di scienze ec. quando anche s’abbiano parole più eleganti, più classiche, e che
in altri casi si possano benissimo adoperare in luogo delle più comuni, come
accade di mercatura, che si può bene adoperare in molti casi, come si
adopera traffico ec. ma non dove il soggetto domanda quella precisione
di significato ch’è propria della voce Europea, commercio.
(31.
Luglio 1821.) [1424]. V. p.1427.
Ogni
scienza. e ogni arte ha li suoi termini, e vocaboli, dice il Davanzati nella Notizia
de’ Cambj, (Bassano 1782. p.92.) il quale però chiama Mercatura quello
che noi Commercio. Molto più saranno importanti e da rispettarsi quei
vocaboli che servono di nome alla scienza o all’arte, come qui.
(31.
Luglio 1821.)
Anche le
scienze fisiche vanno innanzi a forza di decomporre la natura, ec. e
ordinariamente una nuova forza scoperta nella natura, non è altro che una parte
ignota di una forza di un agente già noto, o una forza che si credeva tutt’uno
con questo, e non era ec.
(31.
Luglio 1821.)
Alla
p.1420. marg. Del resto la durevolezza del gusto che si trova in questa
semplicità p.e. di Omero ec. l’universalità di questo gusto (almeno fra le
nazioni di un medesimo genere ec.), il risorgere ch’egli fa negli uomini,
ancorchè spento talora dalle circostanze; il perpetuarsi; il crescere in luogo
di scemare, siccome ho detto; tutto ciò non è [1425]proprio nè possibile
se non a quella vera semplicità, o a quelle qualità d’ogni genere (sia in
letteratura o altrove) che sono realmente conformi alla natura immutabile, e
universale; almeno alla natura qual ella è in quelle tali nazioni. Da
questo dunque e non da altro può derivare ciò che dice Voltaire: pourquoi
des scènes entières du PASTOR FIDO sont-elles sçues par coeur aujourd’hui
à Stocolm et à Pétersbourg? et pourquoi aucune piece de Shakespeare n’a-t-elle
pu passer la mer? C’est que le bon est recherché de toutes les nations. Un falso pregio, cioè non naturale,
in fatto di bellezza, non può dunque nè lungamente nè comunemente essere
stimato, e la mia teoria che distrugge il bello assoluto, lascia salda questa
massima, e quella che il giudizio conforme delle nazioni e de’ secoli circa il
bello d’ogni genere, non erra mai; e lascia interi e inviolati i diritti che i
grandi scrittori, poeti, artisti, hanno alla immortalità, ed alla universalità
della fama.
(31.
Luglio 1821.)
[1426]Il Cristianesimo è un misto di
favorevole e di contrario alla civiltà, di civiltà e di barbarie; effetto dell’incivilimento,
e nemico de’ suoi progressi 1. come lo sono tutte quelle opinioni ec. ec. che
fissano lo spirito umano, e gl’impediscono di progredire, conforme hanno sempre
fatto i sistemi ec. ancorchè derivati da somma dottrina, e coltura ec. 2. com’è
naturale ad un ritrovato, a un frutto della mezza anzi corrotta civiltà.
Il Cristianesimo nella sua perfezione (e la natura, la proprietà, gli effetti
delle cose, vanno considerati nella perfezione di esse, e non in uno stato
imperfetto, cioè quali non debbono essere), è incompatibile non solo coi
progressi della civiltà, ma colla sussistenza del mondo e della vita umana. Com’è
possibile che duri quello che tien se stesso per un nulla ec. ec. e che anela
al suo proprio discioglimento? L’uomo non doveva intendere dalla ragione che le
cose non valessero a nulla, e fossero infelicissime. Egli era pur fatto per
esse. Così dunque non doveva impararlo dalla Religione. L’averlo imparato
distruggerebbe la vita, se l’uomo seguisse fedelmente e precisamente i dettami
e lo spirito della Religione. [1427]Consideriamo il Cristianesimo nel
suo primo fervore, quando tutti anelavano alla verginità, quando 3 quarti dell’anno
si passavano in orazione, ne’ tempj, in vigilie, in macerazioni eccessive, ec.
e domandiamo: se il Cristianesimo non si fosse corrotto o illanguidito, quanto
avrebbe fisicamente potuto durare? Ma quella era pur la sua perfezione, e il
suo puro e primitivo stato. Il mondo non può sussistere s’egli non ha se stesso
per fine. Tutte le cose sono così disposte, che in quanto a se, non mirino ad
altro che a se stesse. L’uomo solamente dovrebbe mirare non solo a tutt’altri
che a se in questo mondo, ma ad un tutt’altro mondo, e considerarsi come
fuori di questo. Come dunque potrebbe durare la specie e la vita umana,
contro gl’insegnamenti e l’essenza della natura, e l’ordine generale e
particolare di tutti gli altri esseri?
(31.
Luglio 1821.)
Alla
p.1424. Molte volte non basta che una nazione sia stata la prima inventrice di
una disciplina, datole il nome, e una certa nomenclatura. Bisogna vedere dov’ella
ha ricevuto il suo principale [1428]incremento e formazione. E se ciò è
stato presso un altro popolo, e se ciò ha cangiato il suo primo nome e la sua
prima nomenclatura, allora quello stesso popolo che inventò quella disciplina,
e la comunicò agli stranieri, ricevendola scambievolmente dagli stranieri come
nuova, non dovrà adoprar mica que’ suoi primi nomi, ch’egli non ne ha più il
dritto, non sarebbe inteso neppur da’ suoi, e guasterebbe ogni cosa; ma gli
sarà forza adottare que’ nuovi termini, e il nuovo nome della stessa
disciplina. Così (v. p.1422-1424.) quando anche l’Italia fosse stata la prima a
ridurre a scienza il commercio sotto nome di mercatura, s’ella poteva dargli
questo nome al tempo del Davanzati (nel qual tempo, oltracciò l’Europa non era
in tale stato che potesse avere vocaboli universali, o ne abbisognasse ec. nè
la precisione della convenzione era sì stabilita ec.), non può darglielo oggi che
questa scienza per opera principalmente degli stranieri, mutando faccia da
quello ch’era nel 500, ha preso un altro nome universalmente adottato dalle
colte nazioni. E [1429]quantunque in etimologia possa egli chiamarsi
sinonimo dell’italiano, non è sinonimo quanto all’uso ed all’idea che produce
in forza della convenzione, sola arbitra dei significati de’ vocaboli, che per
se nulla mai significano, e del più e del meno di detti significati ec.
L’antico
è un principalissimo ingrediente delle sublimi sensazioni, siano materiali,
come una prospettiva, una veduta romantica ec. ec. o solamente spirituali ed
interiori. Perchè ciò? per la tendenza dell’uomo all’infinito. L’antico non è
eterno, e quindi non è infinito, ma il concepire che fa l’anima uno spazio di
molti secoli, produce una sensazione indefinita, l’idea di un tempo
indeterminato, dove l’anima si perde, e sebben sa che vi sono confini, non li
discerne, e non sa quali sieno. Non così nelle cose moderne, perch’ella non vi
si può perdere, e vede chiaramente tutta la stesa del tempo, e giunge subito
all’epoca, al termine ec. Anzi è notabile che l’anima in una delle [1430]dette
estasi, vedendo p.e. una torre moderna, ma che non sappia quando fabbricata, e
un’altra antica della quale sappia l’epoca precisa, tuttavia è molto più
commossa da questa che da quella. Perchè l’indefinito di quella è troppo
piccolo, e lo spazio, benchè i confini non si discernano, è tanto angusto, che
l’anima arriva a comprenderlo tutto. Ma nell’altro caso, sebbene i confini si
vedano, e quanto ad essi non vi sia indefinito, v’è però in questo, che lo
spazio è così ampio che l’anima non l’abbraccia, e vi si perde; e sebbene
distingue gli estremi, non distingue però se non se confusamente lo spazio che
corre tra loro. Come allorchè vediamo una vasta campagna, di cui pur da tutte
le parti si scuopra l’orizzonte.
(1.
Agosto 1821.)
Circa le
sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull’infinito,
e richiamar l’idea di una campagna arditamente declive in guisa che la vista in
certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di un filare d’alberi, la cui
fine si perda di vista, o [1431]per la lunghezza del filare, o perch’esso
pure sia posto in declivio ec. ec. ec. Una fabbrica una torre ec. veduta in
modo che ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda,
produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito
ec. ec. ec.
(1.
Agosto 1821.)
Non c’è
miglior modo di far colpo e fortuna con una giovane superba e sprezzante, che
disprezzandola. Or chi crederebbe che l’amor proprio (giacchè dal solo amor
proprio deriva l’amore altrui) potesse produrre questo effetto, che quando egli
è punto, si provasse inclinazione per chi lo punge? Chi non crederebbe al
contrario che una donna altera e innamorata di se stessa, dovesse vincersi,
interessarsi, allettarsi cogli ossequi, cogli omaggi, ec.? Eppur così è. Non
solo l’ossequio e l’omaggio ti farà sempre più disprezzar da costei, ma se
disprezzandola tu sei pervenuto a fissarla, e a produrle una inclinazione per
te, ed allora o per amore, o per abbandono, o per credere di aver fatto
abbastanza, ec. tu cerchi di cattivartela coi mezzi più naturali, e le dai
qualche piccolo segno di sommissione, [1432]di amore che si dimostri per
vero ec. tu hai tutto perduto, ed ella immediatamente si disgusta di te, e ti
disprezza. Conviene che tu segua imperturbabile a mostrarle noncuranza fino
alla fine. Ed è questo un effetto semplicissimo di quel centiforme amor
proprio, che produce gli effetti i più svariati e contrari. Tanto che, mentre
quasi tutte le donne si cattivano col disprezzo, (sebbene alcune volte, e in
certe circostanze, se ne offendono) quelle però massimamente dove l’amor
proprio è più vivo e tirannico, cioè le più superbe ed egoiste ec. V. in
questo proposito les Mémoires secrets de Duclos à Lausanne 1791. t.1. p.95. e
p.271-273. V. in
questo proposito altro pensiero dove ho notato questo effetto, discorrendo
della grazia. Certo è però che questa modificazione dell’amor proprio, non è
delle più naturali, benchè non molto lontana dalla natura; e ricerca un
carattere alquanto alterato, ma per altro comunissimo.
(1 Agos.
1821.)
Si ha
una perfetta immagine degli organi dell’ingegno, e de’ loro progressi ec. negli
organi esteriori dell’uomo, e nelle abilità di cui sono capaci, e nella maniera
ed ordine con cui le acquistano. P.e. gli organi della voce rispetto al canto.
Non si acquistano [1433]tali abilità che coll’esercizio e assuefazione
ma questi vi ha gli organi più disposti, quegli meno; questi ha bisogno di meno
esercizio, quegli di più; questi può riuscire perfettamente, quegli non mai;
questi è ben disposto alla tale abilità, quegli alla tal altra: tutti da
fanciulli hanno gli organi più suscettibili di contrarre qualsivoglia abilità
possibile all’uomo, perchè gli organi allora sono meglio arrendevoli: e non c’è
quasi abilità possibile di cui qualunque fanciullo non sia capace, con più o
meno esercizio; e capace anche di riuscirvi in tutta la perfezione possibile. Ma
passata la fanciullezza le disposizioni degli organi variano di più, secondo la
maggiore o minor facoltà generale che l’individuo ha contratto, mediante
maggiori o minori esercizi, che producono essi stessi una maggiore o minor
capacità di contrarre abitudini ec. e d’imparare. Tali nè più nè meno sono gli
organi del cervello, e le differenze loro sono della stessissima natura, e
vengono dalle stesse cagioni.
(1.
Agos. 1821.)
[1434]Alla p.1421. fine. Quest’abito è la
principal fonte della miseria sì del mondo, per le verità ch’esso scuopre, sì
dell’individuo. Ma la natura, la quale ha dato a tutti più o meno la
possibilità di contrarlo, mediante uno sviluppo e modificazione non naturale,
delle facoltà e qualità naturali, ha pur dato a tutti i mezzi più che
sufficienti per non contrarlo: mezzi però che oggi son veramente inutili e
insufficienti per molti.
(1.
Agos. 1821.)
In uno
stesso tempo e nazione, quegli prova un vivo senso di eleganza, in tale o tal
parola, o metafora, o frase, o stile, perocchè non v’è assuefatto; questi
nessuno, per la contraria ragione. Una stessa persona, oggi prova gran gusto di
eleganza in uno scrittore, che alquanto dopo, quand’egli s’è avvezzato ad altri
scritti più eleganti, non gli pare elegante per nulla, anzi forse inelegante.
Così è accaduto a me, circa l’eleganza degli scrittori italiani. Così coll’assuefazione
(e non altro) si forma il gusto, il quale come ci tende capaci di molti
piaceri, che per l’addietro malgrado la presenza degli [1435]stessi
oggetti ec. non provavamo, così anche ci spoglia di molti altri che provavamo,
e generalmente, o almeno bene spesso, e sotto molti aspetti, ci rende più
difficili al piacere.
(1.
Agosto 1821.)
Il
piacere che si prova della purità della lingua in uno scrittore, è un piacere
fattizio, che non nasce se non dopo le regole, e quando è più difficile il
conservare detta purità, ed essa meno spontanea e naturale. I trecentisti ne
se doutoient point di questo piacere ne’ loro scrittori, che sono il nostro
modello a quello riguardo. E quegli scrittori non pensavano nè di aver questo
pregio, nè che questo fosse un pregio ec. come si può vedere dalle molte parole
provenzali, Lombarde, genovesi, arabe, greche storpiate, latine ec. che
adoperavano in mezzo alle più pure italiane. Gl’inglesi la cui lingua non è
stata mai soggettata a più che tanta regola, ed ha mancato e manca di un
Vocabolario autorizzato, forse non sanno che cosa sia purità di lingua
inglese. Questo piacere deriva dal confronto, e finchè non vi sono [1436]scrittori
o parlatori impuri (riconosciuti per tali, e disgustosi), non si gusta la
purità della lingua, anzi neppur si nomina nè si prescrive, nè si cerca, benchè
senza cercarla, si ottenga. Ho già detto altrove che i toscani sono meno
suscettibili di noi alla purità della lingua toscana, e infatti se ne intendono
assai meno di noi, oggi che vi sono regole, e che la purità dipende da esse, e
fin da quando esse nacquero; perch’essi non le sanno, non le curano, e fin d’allora,
generalmente parlando, non le curarono. (Varchi, e Speroni. V. Monti Proposta
ec. alla v. Becco, nel Dialogo del Capro.) Tutto ciò accade presso a poco anche
in ordine alla purità dello stile ec. ec.
Mirabile
disposizione della natura! Il giovane non crede alle storie, benchè sappia che
son vere, cioè non crede che debbano avverarsi ne’ particolari della sua vita,
degli uomini ch’egli conosce, e tratta, o conoscerà e tratterà, e spera di
trovare il mondo assai diverso, almeno in quanto a se stesso, e per modo di
eccezione. E crede pienamente a’ poemi e romanzi, benchè sappia che sono falsi,
cioè se ne lascia persuadere che il mondo sia fatto e vada in quel [1437]modo,
e crede di trovarlo così. Di maniera che le storie che dovrebbero fare per lui
le veci dell’esperienza, e così pure gl’insegnamenti filosofici ec. gli restano
inutili, non già per capriccio, nè ostinazione, nè piccolezza d’ingegno, ma per
opera universale e invincibile della natura. E solo quando egli è dentro a
questo mondo sì cambiato dalla condizione naturale, l’esperienza lo costringe a
credere quello che la natura gli nascondeva, perchè neppur nel fatto era
conforme alle di lei disposizioni. Segno che il mondo è tutto il rovescio di
quello che dovrebbe, poichè il giovane che non ha altra regola di giudizio, se
non la natura, e quindi è giudice competentissimo, giudica sempre ed
inevitabilmente vero il falso, e falso il vero.
(2.
Agosto 1821.)
Intorno
alle supposte proporzioni assolute, o in quanto stabilite dalla natura, o in
quanto anteriori alla stessa natura, e necessarie, merita di esser notato
quello che affermano gli ottici, che i diversi individui veggono [1438]gli
stessi oggetti diversamente grandi, secondo le differenze degli organi visivi;
e così, credo, anche una medesima persona secondo le differenze dell’età, e le
alterazioni de’ suoi propri organi ec. ancorchè non sensibili, perchè fatte
appoco appoco. Similmente forse si può dire di tutti gli altri sensi fisici
differentissimi ne’ diversi individui; e senza fallo e molto più de’ sensi
morali d’ogni genere, benchè questi sieno più soggetti ad uniformarsi mediante
lo sviluppo e le modificazioni che ricevono dalla società.
(2.
Agosto 1821.)
Bellissima
istituzione è quella del Cristianesimo di consacrare ciascun giorno alla
memoria di qualcuno de’ suoi Eroi, o di qualcuno de’ suoi fasti, celebrando con
solennità, o universalmente quei giorni che appartengono alla memoria de’ fasti
più importanti alla Chiesa universale, o particolarmente quei giorni che
spettano ad un Eroe la cui memoria interessa questo o quel luogo in particolare
ec. ec. Dal che risultano le uniche feste popolari che questo tempo conservi. E
l’influenza delle feste popolari sulle nazioni è somma, degnissima di calcolo
per li politici, utilissima quando risveglia gli animi alla gloria, colla
rimembranza, e la pubblica e solenne celebrazione e quasi proposizione de’
grandi esempi ec.
Non è
però da credere che [1439]questa sì degna istituzione debba la sua
origine al Cristianesimo. Nè l’epoca del Cristianesimo, epoca nella quale il
mondo incominciava, si può dire, per la prima volta a sentire la mancanza della
vita, la noia, il nulla, e la morte, era capace di produrre una istituzione
tutta di vita, una istituzione energica, fonte di grandezza, sprone all’attività
ec. Bensì è doloroso che di questa istituzione anteriore assai al
Cristianesimo, che la imitò e la ricevè dal mondo antico, non resti oggi altro
che le feste religiose, essendo del tutto abolite e perdute le nazionali.
Giacchè
le feste che si chiamano onomastiche de’ principi ec. o quelle d’incoronazioni,
o anniversarie di dette incoronazioni ec. ec. non sono nè popolari, nè
nazionali, nè utili a nulla. Non sono materialmente popolari, perchè per lo più
non si stendono fuor delle corti, o almeno fuor delle capitali, si limitano a
cerimonie di etichetta, non hanno niente di vivo, di entusiastico ec. Non sono
spiritualmente popolari, cioè nazionali, perchè la festa di un principe vivo,
non è festa della nazione, la quale o [1440]non si cura di lui, o
probabilmente l’odia o l’invidia, o lo biasima in cento mila cose; o per lo
meno è del tutto indifferente sul conto suo, e quasi estranea al suo principe,
o a’ suoi subalterni. E quando anche il principe fosse (che oramai non è
possibile) il padre e il benefattore del suo popolo, quando anche fosse amato dalla
nazione com’era Enrico 4 fra’ principi sovrani, o Sully fra’ ministri ec.; la
festa di un uomo vivo e potente, non essendo nè potendo mai essere scema d’invidia,
non è festa nazionale, perchè questa richiede che tutta la nazione sia
pienamente d’accordo sul soggetto della festa, e le passioni individuali siano
tutte morte intorno ad esso, e il giudizio sia puro, libero, e conforme spontaneamente in tutta la nazione. E quando pur ciò si avverasse (ch’è impossibile) intorno
ad un principe vivente, non è mai festa nazionale quella ch’è, se non altro,
sospetta di adulazione a quegli stessi che la celebrano. Questo solo sospetto,
inseparabile dagli onori resi a un potente vivo, spegne qualunque sentimento
magnanimo, è incompatibile coll’entusiasmo, e con [1441]quel senso di
libertà che forma la più necessaria parte di una festa nazionale, la quale deve
racchiudere l’idea di premio conceduto alla virtù, al merito, ai beneficj, ma
conceduto spontaneamente e gratuitamente, cioè per pura gratitudine,
ammirazione, amore, senza sperar nulla da colui al quale si concede. Non sono
utili, sì per le dette ragioni, le quali affogano, anzi vietano affatto l’entusiasmo,
e tutta la vita che da tali istituzioni si raccoglie; sì perchè l’esempio de’
regnanti o de’ potenti, non è imitabile, e quindi inutile alla moltitudine. E
la disuguaglianza e la distanza delle condizioni fra l’onorato, e chi l’onora,
toglie ancora quell’affezione, quell’inclinazione, quella specie di amicizia,
che nelle antiche feste nazionali legava il popolo co’ suoi passati Eroi, ed
era capace di eccitare generosamente gli animi.
Le feste
del popolo Ebreo furono tutte religiose. Ma presso tutti i popoli antichi,
massimamente però presso gli Ebrei, la religione era strettissimamente legata
colla storia [1442]della nazione. Le opinioni che gli Ebrei avevano
circa la loro origine ec. il loro governo sempre partecipante di teocrazia, i
loro costumi tanto e continuamente influiti dalla religione (come si vede anche
oggi) ec. confondevano forse più che presso qualunque altro popolo (a causa
forse della loro maggiore antichità) le origini e i progressi della nazione
colle origini e i progressi del culto, le glorie della religione, con quelle
della nazione ec. ec. Tutte le feste del Pentateuco richiamano e consacrano e
perpetuano la memoria di qualche grande avvenimento degli antenati, di qualche
antico benefizio di Dio verso la nazione, ec. e son tutte feste nazionali e
patriotiche, appartenendo o ai fatti de’ loro Eroi considerati non meno come
nazionali che come santi, o alle opere di Dio, considerato da loro quasi capo
della nazione, e quasi principe de’ loro Eroi, guida, condottiere, maestro de’
loro antenati, ed origine immediata della loro stessa razza.
Non così
le nostre feste religiose [1443]che sono ben popolari, ma nulla hanno di
nazionale, non avendo nulla di comune, e di strettamente legato i fasti delle
moderne nazioni, e le opere de’ nostri antichi o moderni Eroi nazionali, coi
fasti della religione, e colle opere degli Eroi Cristiani: i quali oltracciò
non sono sempre nostri compatrioti, com’erano tutti quelli di cui gli Ebrei, o
le altre nazioni celebravano la memoria. Anzi non appartengono bene spesso in
verun modo alla nostra patria. E lascio poi la spiritualità del culto che si
rende nelle feste cristiane, spiritualità ben diversa da quella degli Ebrei ed
altri antichi, e del tutto incompatibile coll’entusiasmo, colle grandi
illusioni, coll’infervoramento della vita, coll’attività ec. La festa della
dedicazione del tempio di Salomone, aveva un soggetto più materiale delle
nostre, ma però più delle altre feste Ebraiche diviso dal nazionale: effetto de’
tempi, e del sistema monarchico sotto il quale fu istituita. Teneva però ancora
non poco di nazionalità, stante la gran parte ch’ebbe la nazione [1444]a
quella fabbrica, la solennità e nazionalità di quella dedicazione fatta da
Salomone, il visitar che la nazione faceva ogni anno quel tempio, l’attaccamento
generale alla religione, e l’influenza sua sulla vita e il regime del popolo; i
monumenti dell’antica storia ec. che quel tempio conteneva, e l’esser tutta la
Religione Giudaica quasi rinchiusa e immedesimata con quel tempio; l’affezione
che il popolo gli portava, come poi si vide nella riedificazione fattane da
Esdra e Neemia, quando i vecchi piangevano per la ricordanza del tempio antico
ec. ec. Questo nuovo tempio era forse ancor più nazionale, per la circostanza d’essere
stato fabbricato dalle stesse mani della nazione, e sotto la tutela delle armi
nazionali contro i Samaritani ec. Così che la festa del tempio sì antico che
nuovo, era, si può dir, la memoria di un’impresa nazionale.
Delle
feste religiose presso gli altri popoli antichi, come fossero legate col
nazionale, p.e. quella di Minerva in Atene ec. si può facilmente vedere negli
storici e negli eruditi ec. Giacchè anche le altre nazioni si attribuivano
origini e fasti mitologici ec. ec. ec.
[1445]Delle feste nazionali e patriotiche
de’ greci e de’ romani, e della loro somma influenza sull’eroismo della
nazione, v. Thomas Essai sur les Éloges, ch.6. p.65-66. ch.12. p.149. ch.10.
p.117. il Meursio e gli altri che hanno scritto De Festis Graecorum o
Romanorum.
I
trionfi presso i Romani erano vere feste nazionali, benchè non anniversarie. Nè
faceva alcun danno che forse la principal parte dell’onore di quella festa
fosse renduto a un uomo vivo. 1. Non era egli che se lo decretava, nè una
truppa di servi e di adulatori che glielo concedeva, ma il senato ec. uguale a
lui ec. 2. Per quanto egli fosse potente, non era mai più potente del popolo,
che celebrava la festa; anzi era in istato di tornare un giorno o l’altro come
qualunque privato. 3. L’esempio suo non era inimitabile ai romani, a’ quali
tutti era aperta la carriera degli offici pubblici. 4. Bench’egli facesse la
principal figura, la festa era però nazionale, perchè concerneva le vittorie
riportate dalla stessa nazione sopra i nemici suoi propri, e non quelli del
Generale. 5 Il Generale era un [1446]vero rappresentante della nazione,
perch’eletto da essa ec. e non rappresentante del principe, o rappresentante,
come dicono, di Dio. 6. Questo era in somma un premio che la nazione libera e
padrona concedeva spontaneamente a un suo suddito, e quindi l’effetto di dette
feste, era quello dei grandi premi che eccitano alla emulazione, ed animano col
desiderio e la speranza di conseguirli. Ma le feste di un principe vivo, quando
anche fossero decretate dalla nazione, sarebbero decretate dalla nazione
suddita al suo padrone, il che avvilisce l’idea del premio, massime sapendo
bene che il principe poco si cura di questa ricompensa de’ suoi servi; nè può
destar l’emulazione, e animare colla speranza, sapendosi che molto maggiori
meriti non potrebbero conseguir quell’onore ec. che si concede al principe
solo, o a qualcuno da lui scelto, e sua creatura, e il cui merito per esser
così onorato, dipende dalla sua volontà ec. ec.
Simili
considerazioni si possono fare intorno ai giuochi atletici dei greci, e agli
onori che si rendevano ai vincitori, ancorchè [1447]viventi ec.
Di tali
feste nazionali o patriotiche, il mondo civile non ne vede più veruna, di
nessunissimo genere, se non talvolta qualche Te Deum ed altre cerimonie
per una vittoria del principe: sorta di feste che essendo parimente del
principe, e poco stendendosi al popolo ec. non meritano di chiamarsi nazionali,
quando anche quella vittoria sia veramente utile alla nazione; e non producono
quindi mai veruna emulazione, e verun buono effetto, fuorchè una vana
allegrezza, giacchè il popolo non vi prende parte (quando pur ve la prenda) se
non come invitato; cioè la stessa parte ch’egli ebbe nell’impresa, e che potrà
avere nel frutto di questa, se al principe piacerà.
Restano
dunque per sole feste popolari, le feste religiose, affatto divise fra noi dal
nazionale, ed oltracciò poco oramai popolari, perchè, eccetto alcune, le più si
restringono ai soli tempj, massime nelle grandi città, dove i passatempi sono
quotidiani e sufficienti per se soli ad occupare.
Pur
questa delle feste religiose [1448]è una bellissima istituzione, come ho
detto, ma derivata da’ costumi antichi, e da usanze, come ho dimostrato, ben
anteriori al Cristianesimo, fra le quali bisogna notare, come più strettamente
analoga alle nostre feste, l’usanza de’ settari de’ diversi filosofi di
celebrare ogni anno con conviti ec. la festa genetliaca dell’xxx della loro
setta. V. Porfirio, Vita Plotini, c.15. e quivi le mie note. Si sa che i
Cristiani antichi nelle feste de’ loro eroi ec. si univano pure a banchettare.
ec. Del resto, le feste genetliache sì de’ privati ancor viventi, sì, credo,
degl’imperatori ec. o morti o vivi ec. erano assai comuni presso gli antichi, e
lo sono anche oggi, ma son fuori del nostro soggetto.
È vero
che la poesia propria de’ nostri tempi è la sentimentale. Pure un uomo di genio,
giunto a una certa età, quando ha il cuor disseccato dall’esperienza e dal
sapere, può più facilmente scriver belle poesie d’immaginazione che di
sentimento, perchè quella si può in qualche modo comandare, questo no, o molto
meno. E se il poeta scrivendo non [1449]è riscaldato dall’immaginazione,
può felicemente fingerlo, aiutandosi della rimembranza di quando lo era, e
richiamando, raccogliendo, e dipingendo le sue fantasie passate. Non così
facilmente quanto alla passione. E generalmente io credo che il poeta vecchio
sia meglio adattato alla poesia d’immaginazione, che a quella di sentimento proprio,
cioè ben diverso dalla filosofia, dal pensiero ec. E di ciò si potrebbero forse
recare molti esempi di fatto, antichi e moderni, contro quello che pare a prima
vista, perchè l’immaginazione è propria de’ fanciulli, e il sentimento degli
adulti.
(3.
Agosto 1821.). V. p.1548.
Non solo
i contemporanei p.e. di Omero, sentivano e gustavano la di lui semplicità ben
meno di noi, come ho detto altrove, ma lo stesso Omero non si accorgeva di
esser semplice, non credè non cercò di esser pregevole per questo, non sentì
non conobbe pienamente il pregio e il gusto della semplicità (nè in genere, nè
della sua propria): come si può vedere in quei soverchi epiteti ec. ed altri
ornamenti ch’egli profonde fuor di luogo, come fanno i fanciulli [1450]quando
cominciano a comporre, e si studiano e stiman pregio dell’opera tutto il
contrario della semplicità, cioè l’esser manierati, ornati ec. Segni di un’arte
bambina, la quale infanzia dell’arte produceva insaputamente la semplicità, e
volutamente questi piccoli difetti in ordine alla stessa semplicità; difetti
che un’arte più matura ha saputo facilmente evitare cercando la semplicità, la
quale però non ha mai più potuto conseguire. Così dico dell’Ariosto ec. de’ cui
difetti ho parlato ne’ miei primi pensieri, ed altrove. Così dei trecentisti
manieratissimi, e scioccamente carichi di ornamenti in molte cose, benchè, per
indole naturale, semplicissimi ec.
Da
quanto ho detto altrove che l’ingegno è facilità di assuefarsi, e che questa
facilità include quella di mutare assuefazioni, di contrarne delle nuove in
pregiudizio delle passate ec. risulta che i grandi ingegni denno ordinariamente
esser mutabilissimi (di opinioni, di gusti, di stili, di modi, ec. ec.) non già
per [1451]quella volubilità che nasce da leggerezza, e questa da poca
forza d’ingegno e di concezioni e sensazioni ec. ma per la facilità di
assuefarsi, e quindi di far progressi. Però la mutabilità, quando conduca
sempre più avanti, ancorchè produca nell’uomo delle condizioni tutte contrarie
alle passate, è sempre indizio di grande ingegno, anzi sua necessaria qualità.
Ed infatti grandissima differenza si suol trovare p.e. tra le prime e le ultime
opere di un grande scrittore (sia nel genere, sia nello stile, sia nelle
opinioni, sia ne’ pregi particolari o qualità ec. sia in tutte queste cose
insieme), e nessuna o pochissima in quelle de’ mediocri, o degl’infimi.
Paragonate il Rinaldo del Tasso, o la prima Tragedia del Metastasio o dell’Alfieri
colle ultime ec. Così pure nelle inclinazioni della vita o degli studi, ne’
gusti letterarii ec. Così dico anche rispetto alle sue assuefazioni e abilità
materiali ec.
(4.
Agos. 1821.)
Non c’è
sommo ingegno che nel suo [1452]primissimo periodo non si trovi appresso
a poco a livello cogl’infimi ingegni, posti in quello stesso periodo. Dal che
si vede che il grande ingegno non si forma se non mediante l’uso dell’esercizio
e delle assuefazioni, il qual uso gli facilita poi l’abito di assuefarsi, che è
quanto dire, gli produce il talento ec. ec.
(4.
Agos. 1821.)
Ciascun
uomo è come una pasta molle, suscettiva d’ogni possibile figura, impronta ec. S’indurisce
col tempo, e da prima è difficile, finalmente impossibile il darle nuova figura
ec. Tale è ciascun uomo, e tale diviene col progresso dell’età. Questa è la
differenza caratteristica che distingue l’uomo dagli altri viventi. La maggiore
o minore conformabilità primitiva, è la principal differenza di natura
fra le diverse specie di animali, e fra i diversi individui di una stessa
specie. La maggiore o minore conformabilità acquisita (mediante l’uso
generale delle assuefazioni, che produce la facilità delle assuefazioni
particolari) e le diverse forme ricevute [1453]da ciascun individuo di
ciascuna specie, è tutta la differenza di accidente che si trova fra detti
individui. Quindi considerate quanto sia ragionevole l’opinione delle cose
assolute, anche dentro i limiti, e l’ordine effettivo della natura qual ella è,
e dilatate questo pensiero.
Da tali
osservazioni segue che la natura ha lasciato più da fare per la loro vita, a
quegli esseri ai quali ha dato maggiore conformabilità, cioè qualità e facoltà
più modificabili, diversificabili, e variamente sviluppabili, e capaci di
produrre più diversi e moltiplici effetti, quantunque lasciate quali sono
naturalmente, non li producano. Tale è soprattutti l’uomo. Quello che la natura
gli possa aver lasciato a fare, l’ho detto in altro pensiero.
(4.
Agosto 1821.). V. p.1538. capoverso 1.
Malamente
si distingue la memoria dall’intelletto, quasi avesse una regione a parte nel
nostro cervello. La memoria non è altro che una facoltà che l’intelletto ha di
assuefarsi alle concezioni, diversa dalla facoltà di concepire o d’intendere.
ec. Ed è tanto necessaria all’intelletto, ch’egli senza di essa, non è capace
di verun’azione, (l’azione dell’intelletto è diversa dalla semplice
concezione ec.) perchè ogni [1454]azione dell’intelletto è composta,
(cioè di premesse e conseguenza) nè può tirarsi la conseguenza senza la memoria
delle premesse. Bensì questa facoltà, che quantunque inerentissima all’intelletto,
e spesso appena distinguibile dalla facoltà di concepire e di ragionare, è però
diversa, può sommamente illanguidirsi ec. senza che quella di concepire ec. s’illanguidisca
nè si perda ec. e può essere anche originariamente debole, in un intelletto ben
provvisto delle altre facoltà. Osservate però (contro quello che si suol dire
che l’ingegno è indipendente ec. dalla memoria) che non v’è quasi grande
ingegno che non abbia grande memoria, almeno originariamente. E ciò 1. perchè
la facilità di assuefarsi ec. che forma i grandi ingegni, cagiona naturalmente
ed include anche la facoltà della memoria ec. 2. perchè un ingegno senza
memoria, ancorchè sia grande, non si conosce per tale, non potendo produrre
notabili effetti ec.
Del
resto la facoltà di assuefazione in che consiste la memoria è indipendente in
molte parti dalla volontà, come altre assuefazioni [1455]materiali e
fuor della mente ec. Il che si vede sì per mille altre cose, sì perchè
spessissimo una sensazione provata presentemente, ce ne richiama alla memoria
un’altra provata per l’addietro, senza che la volontà contribuisca, o abbia
pure il tempo di contribuire a richiamarla. Così un canto ci richiama p.e.
quello che noi facevamo altra volta udendo quello stesso canto ec. Così l’Alfieri
nel principio della sua Vita, osserva una sua rimembranza che fa al proposito
ec.
(4.
Agosto 1821.)
La forza
dell’assuefazione nell’uomo, e come lo sviluppo di tutte le sue facoltà dipenda
da essa, si può vedere ne’ suoi organi esteriori, paragonando quelli de’
fanciulli (e più, de’ bambini) a quelli degli adulti, non relativamente alle
abilità particolari, ma all’uso quotidiano che fa ciascun uomo di detti organi,
p.e. delle mani. Le quali troveremo inettissime ne’ fanciulli a quelle medesime
cose che noi più facilmente operiamo. E ciò non già per la sola debolezza ec.
degli organi, inerente a quella età, ma anche del tutto indipendentemente da
questa, per la mancanza sì delle assuefazioni [1456]particolari a questa
o quella operazione, sì dell’esercizio generale che abilita l’organo ad eseguir
senza il menomo stento una operazione del tutto nuova ec. delle quali, rispetto
p.e. alle mani, ce ne capita tuttogiorno. Così che osservando gli organi
esteriori de’ fanciulli, appena si crederebbe ch’essi fossero gli stessi che i
nostri, e che avessero in potenza le stesse facoltà ec. Meno bisognosi di
assuefazione sono gli organi degli animali, secondo quello che ho detto
p.1452-53. Che cosa è l’uomo? Un animale più assuefabile degli altri.
Frissonner ec. frættv o fræssv ec.
(5.
Agosto 1821.)
Osserviamo
nuovamente la forza dell’opinione sul bello. Ho detto altrove che l’eleganza
consiste in qualcosa d’irregolare. Quindi è che mentre cento eleganze si
gustano e piacciono negli scrittori accreditati, infinite altre che
meriterebbero lo stesso nome, e sono della stessa natura, non paiono eleganze e
non piacciono, perchè la loro irregolarità si trova in autori non abbastanza
accreditati, ancorchè sieno di vero merito, p.e. se sono moderni, onde non
possono avere [1457]l’autorità de’ secoli in loro favore. Anzi quelle
stesse locuzioni, metafore, ec. ec. che trovate in un autore accreditato ci
daranno sapor di eleganza, trovate in autore non accreditato ci daranno sapor
di rozzezza, d’ignoranza, di ardire irragionevole, di sproposito, di temerità
ec. se non ci ricorderemo che quelle hanno per se l’autorità di uno scrittore
stimato. E ricordandocene in quel momento, o anche dopo pronunziato il giudizio
della mente, lo muteremo subito, e troveremo effettivo gusto in quello che ci
aveva dato effettivo disgusto. Il qual effetto è frequentissimo negli studi di
letteratura, e può stendersi a considerazioni di molti generi, intorno al
piacere che deriva dall’imitazione del buono e classico, e bene spesso dalla
sua contraffazione. Piacere non naturale nè assoluto, ma secondario e fattizio,
e pur vero piacere: anzi tanto vero che la lettura dei classici, secondo me,
non ha potuto mai dare agli antichi quel piacere che dà a noi, e parimente i
classici [1458]contemporanei non ci daranno mai nè tanto gusto quanto
gli antichi (cosa certissima), nè quanto ne daranno ai posteri.
Che in
natura occorrano molti accidenti contrari al di lei sistema, senza guastarlo
ec. è vero. Ma l’amor proprio non è accidente, anzi primissimo ed essenziale
principio e perno di tutta quanta la macchina naturale. Ora è certissimo che l’amor
proprio impedisce all’uomo sì nello stato naturale, sì molto più in qualunque
altro, di poter mai essere perfettamente buono, cioè di pensieri e di opere
perfettamente e perpetuamente consentaneo alla legge che chiamano naturale. E l’impedisce
non in cose leggere, ma principalissime, non di rado, ma tutto giorno. Non dico
niente delle passioni naturalissime ec. ec. ec. Come dunque la natura ha fatto
l’uomo ripugnante a se stessa, cioè a se stesso? E che cos’è questa legge
naturale, che gli altri animali (perfetti sudditi della natura) non seguono, nè
ponno seguire, impediti dallo stesso amor proprio, nè conoscono [1459]in
verun modo? Non hanno ragione. Hanno però istinto, secondo voi altri, e la
legge naturale, secondo voi altri, e la forza stessa del termine, è istinto
innato ec. indipendente dalla riflessione, e quindi dalla ragione. Dunque la
legge naturale sarebbe tanto più conveniente agli animali che non hanno ragione
da supplirvi; siccome sarebbe quasi una qualità animalesca nell’uomo libero e
ragionevole. Secondo me hanno anche il principio di raziocinio, hanno libertà
intera, e se la legge naturale è utile anzi necessaria all’uomo, perchè non dunque
agli animali, o liberi, o no che sieno? Ora essi, che pur non sono corrotti, e
non hanno spento, come voi dite di noi, l’impulso, la voce interna ec. agiscono
quotidianamente, e in ogni loro bisogno, in senso contrario a detta legge.
(6.
Agos. 1821.)
Quanto
gli uomini sono meno inciviliti (come sono i selvaggi, com’erano gli Americani
ec.) tanto maggiori e più frequenti varietà di lingue o dialetti si trovano in
più piccolo spazio di paese, e minor quantità di gente. Cosa provata dalla
storia, da’ viaggi ec. e proporzionatamente dalla stessa osservazione de’
popoli più o meno inciviliti, letterati ec. V. la p.1386. fine. Dal che si vede
quanto la natura contrasti all’uniformità de’ linguaggi ec. come ho detto
altrove.
(6.
Agos. 1821.)
[1460]L’impero che il Cristianesimo ha
per tanti secoli esercitato (e prima e dopo il risorgimento della civiltà)
tanto sugli animi, le opinioni, i costumi privati e pubblici, quanto sul
temporale degli stati, e sulla politica universale del mondo Cristiano, e
generalmente insomma sulla vita umana, è stato quasi un impero della filosofia,
uno stabilimento di potenza filosofica, un’influenza, una superiorità generale
acquistata nel mondo dalla ragione sulla natura, le naturali illusioni ec. e
dallo spirito sopra il corpo. Stabilimento originato da quell’epoca metafisica
che produsse il Cristianesimo, e durato per le circostanze dei lumi e degl’intelletti,
e per la forza dell’abito ec. Allora il mondo era quasi una repubblica
filosofica, o piuttosto uno stato soggetto ad un intollerante, universale,
stretto, potente dispotismo della filosofia, riconosciuto da tutti per giusto,
o per invincibile, benchè tutta la sua forza (al solito delle tirannie, e quasi
d’ogni genere di governi) stesse nell’opinione. Il Papa rispettato e temuto da
tutti i privati e da tutti i principi Cristiani, un inerme, un povero, da
armati e da ricchi, era il vero capo di una repubblica filosofica. Basta
considerare quella cerimonia [1461]della sua coronazione, quando se gli
abbrucia innanzi agli occhi della stoppa, dicendo: Beatissime pater, sic
transit gloria mundi. Massima piena di serissime e profondissime
riflessioni filosofiche: gloria che veramente era grande, anzi somma, un secolo
e mezzo addietro: nè certo il Papa la disprezzava, nè soleva ricordarsi molto
spesso di quell’ammonizione. Oggi questo smisurato colosso d’impero filosofico,
è stato distrutto da quello di un’altra filosofia; nuovo impero conveniente al
secolo che l’ha stabilito e prodotto. E sarà più facile assai che anche questo
cada, di quello che il primo risorga.
Noi
stessi nelle nostre riflessioni giornaliere le meno profonde, conosciamo e
sentiamo che la virtù (p.e.) è un fantasma, e che non c’è ragione per cui la
tal cosa sia virtù, se non giova, nè vizio se non nuoce; e siccome una cosa ora
giova, ora nuoce; a questo giova, a quello no; ad un genere di esseri sì, ad un
altro no, ec. ec. così veniamo a confessare che la virtù, il vizio, il cattivo,
il buono è relativo. Noi [1462]non troviamo nell’ordine di questo mondo
alcuna ragione perchè una cosa che giova a me (anche grandemente) e nuoce ad
altri (anche leggermente), non si possa fare, e sia colpa; perchè un atto
segreto che non giova nè a me nè ad altri, e non nuoce a veruno, e non ha
spettatori, possa essere virtuoso o vizioso; perchè p.e. una bugia che non
nuoce ad alcuno, e neppur dà mal esempio, perchè non è conosciuta, una bugia
che giovi sommamente ad altri o a me stesso, senza nuocere ad alcuno, sia male
e colpa. Le ragioni di tutto ciò noi siamo costretti a riporle in un Essere
dove personifichiamo il bene, la virtù, la verità, la giustizia ec. facendolo
assolutamente, e per assoluta necessità, buono: che se così non facessimo,
neppure in lui avremmo trovato il confine delle cose, e la ragione per cui questo
o quello sia assolutamente buono o cattivo. Noi consideriamo dunque detto
Essere come un tipo, a norma del quale convenga giudicare della bontà o
bellezza ec. della bruttezza o malvagità delle cose (ed ecco le id¡ai di Platone). Quello che [1463]somiglia o piace a
lui, è dunque assolutamente, primordialmente, universalmente e necessariamente
buono, e viceversa. Benissimo: altra ragione infatti che questa non vi può
essere del buono ec. assoluto; e, come ho detto altrove, tolte le idee di
Platone, l’assoluto si perde. Ma qual ragione ha questo tipo di esser tale
quale noi ce lo figuriamo, e non diverso? Come sappiamo noi che gli
appartengono quelle qualità che noi gli ascriviamo? - Elle son buone, e la
necessità è la ragione per cui gli appartengono, e per cui egli esiste in quel
tal modo e non altrimenti. - Ma son elle buone necessariamente? son elle buone
assolutamente? primordialmente? universalmente? Che ragione abbiamo per
crederlo, quando, come vengo dal dire, non ne troviamo nessuna in questo mondo,
vale a dire in quanto possiamo conoscere; anzi quando la osservazione depone in
contrario quaggiù stesso, benchè dentro un medesimo ordine di cose? - La
ragione che abbiamo è Dio. - Dunque noi proviamo l’idea dell’assoluto coll’idea
di Dio, e l’idea di Dio coll’idea dell’assoluto. Iddio è l’unica prova delle
nostre idee, e le nostre idee l’unica prova di Dio. [1464]Da tutto ciò
si conferma ciò che ho detto altrove che il primo principio delle cose è il
nulla.
(7.
Agos. 1821.)
L’animo
umano è così fatto ch’egli prova molto maggior soddisfazione di un piacer
piccolo, di un’idea di una sensazione piccola, ma di cui non conosca i limiti,
che di una grande, di cui veda o senta i confini. La speranza di un piccolo
bene, è un piacere assolutamente maggiore del possesso di un bene grande già
provato (perchè se non è ancora provato, sta sempre nella categoria della
speranza.) La scienza distrugge i principali piaceri dell’animo nostro perchè
determina le cose, e ce ne mostra i confini, benchè in moltissime cose, abbia
materialmente ingrandito d’assaissimo le nostre idee. Dico materialmente, e non
già spiritualmente, giacchè p.e. la distanza dal sole alla terra, era assai
maggiore nella mente umana, quando si credeva di poche miglia, nè si sapeva
quante, di quello che ora che si sa essere di tante precise migliaia di miglia.
Così la scienza è nemica della grandezza delle idee, benchè abbia
smisuratamente [1465]ingrandito le opinioni naturali. Le ha ingrandite
come idee chiare, ma una piccolissima idea confusa, è sempre maggiore di
una grandissima, affatto chiara. L’incertezza se una cosa sia o non sia
del tutto, è pur fonte di una grandezza, che vien distrutta dalla certezza che
la cosa realmente è. Quanto maggiore era l’idea degli Antipodi, quando il
Petrarca diceva forse esistono, di quello che appena fu saputo ch’esistevano.
Ciò che dico della scienza, dico dell’esperienza ec. ec. La maggiore anzi la
sola grandezza di cui l’uomo possa confusamente appagarsi, è l’indeterminata,
come risulta pure dalla mia teoria del piacere. (7. Agos. 1821.). Quindi l’ignoranza
la quale sola può nascondere i confini delle cose, è la fonte principale delle
idee ec. indefinite. Quindi è la maggior sorgente di felicità, e perciò la
fanciullezza è l’età più felice dell’uomo, la più paga di se stessa, meno
soggetta alla noia. L’esperienza mostra necessariamente i confini di molte cose
anche all’uomo naturale e insocievole.
Le pazze
filosofie degli antichi, la stessa scolastica, lasciando tutto il resto, hanno
sommamente, e forse principalmente giovato al progresso dello spirito umano, in
che? riguardo ai nomi. Le profonde meditazioni, le acutissime sofisticherie, il
lambiccarsi il cervello, circa le astrazioni, le qualità occulte, ed altri
sogni, ci hanno dato la denominazione e quindi la fissazione d’idee prime,
elementari, secretissime, difficilissime [1466]a concepire, a definire,
ad esprimere, ma tanto necessarie, usuali ec. che senza tali nomi la filosofia
non sarebbe ancor nulla. Astratto e concreto, essenza,
sostanza e accidente, e tali altri termini d’ontologia, logica ec.
Che sarebbe il pensiero dell’uomo s’egli non avesse idea chiara di tali
ripostissime, ma universalissime cose? e come l’avrebbe senza i nomi? i quali
dopo sì piene rivoluzioni della filosofia ec. sono e saranno pur sempre in
bocca de’ filosofi. Ma certo la difficoltà d’inventarli è stata somma, e tale
che la filosofia moderna forse non ne sarebbe stata capace. E mentre le idee
più difficili a concepirsi chiaramente, definirsi col pensiero, e nominarsi,
sono le più elementari, certo è che la filosofia qualunque, non potrà mai
concepire nè significare idee più elementari di queste. Utilissima per questo
lato, è stata la stessa teologia, che ha maggiormente diffuse e popolarizzate
tali parole, ed altre ne ha trovate, assuefacendo, ed affezionando, ed
eccitando lo spirito umano alle astrazioni, con tali stimoli, [1467]che
nessun’altra disciplina avrebbe potuto altrettanto, nè verun’altra circostanza
come quella delle dispute teologiche, dove prendevano parte i principi e le nazioni,
e degli studi teologici che interessarono per sì lungo tempo tutta la vita
umana, e tutto lo stato del mondo civile. E quanto ho detto altrove circa l’utilità
che si può cavare dal linguaggio scolastico de’ filosofi ec. intendo pur dirlo
del teologico, d’ogni specie, dommatico, morale, scolastico, ec.
(7.
Agos. 1821.)
Anzi stante
le dette considerazioni, io credo che tali studi (notate) non solo
gioverebbero la nostra o altra lingua, ma il progresso dello spirito umano.
(7.
Agos. 1821.)
Dico,
applicando tali studi alla moda filosica. La scienza fa un progresso
considerabile quando arriva a render chiara, fissa, e distinta dall’altre un’idea elementare ec. mediante un proprio nome, che è l’unico mezzo. E questa
è la cosa più difficile, ma l’ultimo scopo della filosofia. Ora forse non poche
idee [1468]astratte ec. che rimangono oscure nella filosofia moderna per
mancanza di nome particolare, o abbastanza esatto ec. hanno forse la loro
perfetta denominazione e quindi son chiare nell’antica moltiplice filosofia, o
nella scolastica, o nella teologia ec.
(7.
Agos. 1821.)
La detta
applicazione non credo che sia stata mai fatta, almeno sufficientemente. Quando
il Cartesio imprese la riforma della vecchia filosofia, dovette, secondo la
qualità di que’ tempi (e pur troppo di tutti i tempi) entrare in guerra aperta
colle scuole d’allora: e il mondo avrebbe stimato ch’egli prevaricasse, o desse
indizio di povertà o fiacchezza, se avesse voluto servirsi più che tanto del
linguaggio de’ suoi nemici. Così appoco appoco, prevalendo la nuova dottrina,
non più a causa della ragione, che della novità, e dismessa la vecchia
filosofia, nessuno ebbe cura bastante di cernere il buono dal cattivo, e
gittando questo, conservare o richiamar quello, massime circa il linguaggio. In
ordine alla teologia molto peggio. La teologia s’è abbandonata da chiunque ora
influisce cogli studi sullo spirito d’Europa ec. non per migliorarla o
rinnovarla, ma del tutto, come scienza vecchia, e [1469]quasi come l’alchimia.
Ora quanto sia il numero degli scrittori e pensatori teologici diversissimi di
tempo, di paese, di lingua, di opinioni ancora e di sistemi e di sette, e
conseguentemente quanta debba esser la ricchezza del linguaggio di questa
scienza, linguaggio tutto astratto perchè la scienza è tale, linguaggio che s’è
tutto abbandonato e dimenticato insieme con lei, facilmente si comprende.
Il
formare il nostro Dio degli attributi che a noi paiono buoni, benchè non lo
sieno che relativamente, è un’opinione meno assurda, ma della stessa natura,
andamento, origine, di quella che attribuiva agli Dei figura e qualità e natura
quasi del tutto umana; di quella che, come dice Senofane presso Clemente
Alessandrino, se il cavallo o il bue sapesse dipingere, gli farebbe dipingere e
immaginare i suoi Dei in forma e natura di cavalli o di buoi. V. il mio
Discorso sui romantici dove si cita questo passo con altre osservazioni. Anzi
la nostra opinione è un raffinamento, un perfezionamento, di questa quanto
assurda, tanto naturale (v. il cit. discorso) opinione [1470]antica;
raffinamento prodotto da quello spirito metafisico che produsse il
Cristianesimo, o da quello che presso gli antichi Orientali (la cui storia
rimonta tanto più indietro delle nostre) produsse il sistema di un solo Dio,
seguito dagli Ebrei, e da questi comunicato ai Gentili d’epoca e civiltà più
moderna, quando il secolo fu adattato a fare che tal dottrina fosse ricevuta, e
divenisse universalmente popolare. Ho detto che questa è meno assurda, ma
intendo, quanto al nostro modo di ragionare, e all’ordinario sistema delle
nostre concezioni, perchè assolutamente parlando, ella è altrettanto assurda, o
piuttosto falsa, giacchè l’assurdo si misura dalla dissonanza col nostro modo
di ragionare. Del resto la nostra opinione intorno a un Dio composto degli
attributi che l’uomo giudica buoni, è una vera continuazione dell’antico
sistema che lo componeva degli attributi umani. ec. L’antica e la moderna
Divinità è parimente formata sulle idee puramente umane, benchè diverse secondo
i tempi. Il suo modello è sempre l’uomo. ec.
(8.
Agos. 1821.)
Una
delle principali e universali e caratteristiche inseparabili proprietà dello
stile degli [1471]antichi non corrotti, cioè o classici, o anteriori
alla perfezione della letteratura, si è la forza e l’efficacia. Quest’è la
prima, anzi l’unica qualità ch’io ho sentito notare da uomini poco avvezzi a
letture classiche, ogni volta che venivano dal leggere qualche libro de’ buoni
antichi, o qualche libro moderno su quel gusto di stile. Ed era l’unica perchè
forse essi non erano capaci di discernere a prima vista, nè gustare le altre.
Ma questa dà subito nell’occhio, e si distingue e si separa facilmente dalle
altre. Quindi osservate quanto sia vero che la natura è sorgente di forza, e
che questa è sua qualità caratteristica, come la debolezza lo è della ragione.
Perciocchè 1. gli antichi scrittori, massime quelli anteriori al
perfezionamento della letteratura, i quali sono ordinariamente più energici
degli altri, non cercavano gran fatto l’energia, nè se ne pregiavano, nè
volevano esser famosi per questo ec. come ho detto altrove della semplicità,
dell’eleganza, della purità di lingua ec. Tali sono i [1472]trecentisti
ec. Eppure senza cercarlo, riuscivano robustissimi e nervosissimi per la sola
forza della natura che in loro parlava e regnava, e quindi per la loro propria
forza. 2. Quando anche la cercassero, già la cercavano assai meno di noi che
tanto meno la troviamo, poi se la cercavano in proporzione della riuscita, vuol
dire che la cercavano sopra tutto, e che quindi nel tempo che la natura
regnava, l’efficacia e l’energia si stimava la principal dote dello stile. E
così accadeva in tutto: e così la prima e perenne sorgente di forza, sia nello
stile, sia nella lingua, sia ne’ concetti, sia nelle azioni, sarà sempre l’esempio
degli antichi, cioè la natura. E i tempi moderni con tutti i loro lumi non
possono mai supplire a questa fonte.
La detta
efficacia è pure un genere di bellezza eterna e universale, che però non
appartiene al bello, ma alla inclinazione generale dell’uomo verso la forza,
verso le sensazioni vive, verso ciò che lo eccita, e rompe la monotonia dell’esistenza
ec. e alla natura ec.
(8.
Agos. 1821.)
Non
hanno torto i padri e le madri che amano la vita metodica, senza varietà, senza [1473]commozioni, senza troppe fatiche, la pace domestica ec. I loro
gusti, le loro inclinazioni possono ben difendersi, e v’è tanto da dire per la
morte come per la vita, dice la Staël. Ma il gran torto degli educatori è di
volere che ai giovani piaccia quello che piace alla vecchiezza o alla maturità;
che la vita giovanile non differisca dalla matura; di voler sopprimere la
differenza di gusti di desiderii ec. che la natura invincibile e immutabile ha
posta fra l’età de’ loro allievi, e la loro, o non volerla riconoscere, o
volerne affatto prescindere; di credere che la gioventù de’ loro allievi debba
o possa riuscire essenzialmente, e quasi spontaneamente diversa dalla propria
loro, e da quella di tutti i passati presenti e futuri; di volere che gli
ammaestramenti, i comandi, e la forza della necessità suppliscano all’esperienza
ec.
Quel
giovane che fu d’animo eroico nella virtù (come sogliono essere tutti quelli
che nascono con grande e forte immaginazione e sentimento), se per forza dell’esperienza,
delle [1474]sventure, degli esempi, disingannato della virtù, arriva a
lasciarla, diviene eroico nel vizio, e capace di molto maggiori errori, che non
sono gli altri ec. Non già per una continuazione di entusiasmo applicato al
male, ma per un eccesso di freddezza che è sempre compagna della malvagità.
Egli diviene un eroe di freddezza, e tanto più intrepido, duro, ghiacciato,
quanto era stato più fervido. Come quei vapori che si convertono in grandine, i
quali non si stringerebbero nel più duro, denso, e sodo ghiaccio che possa
formarsi nell’aria, se straordinario calore non gli avesse innalzati a
straordinaria sublimità. In tutte le cose gli eccessi si toccano assai più fra
loro, che col loro mezzo, e l’uomo eccessivo in qualunque cosa, è molto più
inclinato e proclive all’eccesso contrario che al mezzo. Ed è molto più facile, conseguente, e naturale per la forza e la qualità di un’indole eccessiva,
il saltare dall’uno all’opposto estremo, che il recarsi e fermarsi nel mezzo
ec. ec.
(9.
Agos. 1821.)
[1475]Confrontando le lingue spagnuola
francese e italiana, si trovano molte proprietà principalissime ed essenziali,
che sono comuni a tutte tre. Or queste essendosi formate massime quanto al
principale e fondamentale, l’una indipendentemente dall’altra, è necessario il
dire che le dette proprietà derivino da un’origine comune, e questa non può
esser che il latino, e s’elle non si trovano nel latino scritto, dunque vengono
dal volgare. Nè si può dir che derivino dal latino corrotto de’ bassi tempi,
perchè, come ho detto, egli si corruppe diversamente e indipendentemente
secondo i luoghi ec. e le lingue che nacquero dal latino nacquero
separatamente, e quasi in diverse parti. Quindi l’uso degli articoli e de’
segnacasi, uniformi appresso a poco anche materialmente nelle tre lingue; l’uso
de’ verbi ausiliari pure uniformi, cioè essere e avere (eccetto
che lo spagnolo non adopra essere), si debbono considerare come propri
del volgare latino. Così l’uso del verbo finito colla particella che (franc. e
spagn. que) in vece dell’infinito ec. del qual costume [1476]si
hanno indizi anche nel buon latino (cioè del quod ec.) e molto più
frequenti nel barbaro. I greci ebbero pur sempre lo stesso uso (ôti).
Quelle
proprietà poi, o parole ec. ec. che non appartengono se non a questa o quella
delle tre lingue, e che non si ponno riferire ad alcuna origine conosciuta,
ponno esser vestigi delle antiche lingue nazionali estinte poi dalla latina. Ma
ciò più difficilmente potrà supporsi in quanto appartiene alla lingua italiana ec.
E in ogni modo queste tali proprietà, parole ec. se anche derivano dall’antiche
lingue anteriori all’uso della latina ne’ diversi paesi ec., non ponno essersi
conservate se non passando pel volgare latino, il quale ebbe pur certo i suoi
idiotismi provinciali, com’è noto, e come ho detto altrove parlando dei
dialetti latini.
(9.
Agos. 1821.)
La
maggior parte degli uomini in ultima analisi non ama e non brama di vivere se
non per vivere. L’oggetto reale della vita è la vita, e lo strascinare con gran
fatica su e giù per una medesima strada un carro pesantissimo e vôto.
[1477]Non v’è infelicità umana la quale
non possa crescere. Bensì trovasi un termine a quello medesimo che si chiama
felicità. Può trovarsi un uomo perfettamente fortunato, che nulla possa
desiderare di più, la cui felicità non possa più stendersi. Augusto era in
questo caso. Ma un uomo tanto infelice, che non possa immaginarsi maggiore
infelicità, infelicità non solamente fantastica, non solamente possibile, ma
realizzata bene spesso in questo o quell’individuo, per quella o per questa
parte; un tal uomo non si dà. La fortuna può dire a molti, io non ho maggior
potere di beneficarti, ma nessuno può mai vantarsi, e dire alla fortuna, tu non
hai forza di nuocermi davantaggio e di aumentare i miei dolori. Può mancar che
sperare, ma nessuno mancherà mai di che temere. La disperazione stessa non
basta ad assicurar l’uomo. (10. Agos. 1821). Nessuno può vantarsi o sdegnarsi
con verità dicendo: io non posso essere più infelice di quel che sono.
(Molte
cose e da molti sono state dette in proposito delle voci sinonime, altri
negando che ve n’abbia effettivamente, altri affermando; e questo e quello chi
d’una chi d’altra lingua, e chi di tutte in genere.).
Molto s’è
disputato circa i sinonimi. Ecco la mia opinione. Le lingue primitive piuttosto
dovevano significar molte cose con una sola parola, che aver molte parole ec.
da significare una stessa cosa. Formandosi appoco [1478]appoco le
lingue, e modificandosi in mille guise le prime scarsissime radici, per
adattarle stabilmente e distintamente alle diverse significazioni, le lingue
vennero a crescere, le parole (non radicali, ma derivate o composte) a
moltiplicarsi infinitamente, si acquistò la facoltà di esprimere colla favella
e colla scrittura, sino alle menome differenze, varietà, specie, accidenti ec.
delle cose, ma i sinonimi (se non forse qualcuno per caso, o per commercio con
altre lingue) ancora non esistevano. Ciascuna parola che si formava modificando
le prime radici, o le altre parole già formate; ciascun genere costante di
modificazioni, derivazioni, inflessioni, composizioni, formazioni che s’introduceva
(come quello de’ verbi frequentativi o diminutivi presso i latini ec.) aveva
per oggetto di arricchir la lingua ed accrescerne la potenza, non colla
meschina facoltà di poter dire una stessissima cosa in più modi, ma con quella
importantissima di poter distintamente significare le menome differenze delle
cose, differenze o già note fin da principio, ma non sapute esprimere, ovvero
osservate solamente col tempo: o anche idee nuove ec. [1479]Quindi
nasceva una grandissima varietà nelle lingue, ben più sostanziale di quella che
deriva dall’uso dei sinonimi. Giacchè se per mezzo di questo, noi possiamo ad
ora ad ora, capitandoci la stessa cosa da dire, variare il modo di esprimerla;
agli antichi capitava assai di rado la stessa cosa, e quindi la necessità della
stessa parola, perchè ogni menoma differenza che la cosa da esprimersi avesse
con la cosa già detta, bastava per mutarne il segno, e la lingua somministrava
puntualmente una diversa e propria espressione di quella benchè leggerissima
differenza.
Ma
siccome queste tali differenze, e quindi le differenze ne’ significati delle
parole che le esprimevano, erano sottilissime, e spesso quasi metafisiche (che
gli antichi, e massime i latini furono ammirabilmente esatti e minuti nell’assegnare
e precisare i significati delle loro voci e modi, e vedi p.1115-16. 1162.
capoverso 3.); così naturalissimamente il popolo, incapace di troppe sottigliezze,
e quando anche le concepisse, incapace di por troppo squisita cura nella scelta
delle parole, cominciò, arricchite, ingrandite, [1480]e fecondate che
furono le lingue, a confondere quella parola o quel modo con un altro di poco
diversa significazione, a servirsi indifferentemente di voci destinate ad usi
simili ma distinti, a trascurare la minuta esattezza, e a poco a poco a
dimenticare l’esatto e primo valore di una parola o radicale o derivativa, ad
usurpare quel genere di formazioni destinato a quel genere di significati, in
significati d’altro vicino genere, e finalmente a dimenticare il proprio e
preciso valore delle parole e dei modi; e col tempo e colla forza prepotente
dell’uso (che sotto molti aspetti nelle lingue non è che abuso) confondendo i
significati, moltiplicarli di nuovo in ciascuna parola, e moltiplicar le parole
significanti una stessa cosa, benchè da principio differissero. In tal modo le
lingue perderono la facoltà che avevano al loro buon tempo di esprimere
distintamente le menome differenze delle idee, e queste differenze poco
conosciute o notate dai parlatori, fecero che svanissero le piccole ma reali
differenze de’ significati delle parole. Ed ecco i sinonimi.
[1481]Nè solo il popolo, ma anche i
civili parlatori (per la difficoltà di essere esatto nel parlare ch’è
improvvisare), ed anche i negligenti o meno diligenti scrittori contribuirono
proporzionatamente a questo effetto. Lascio le diffusioni di una lingua, e le
infinite cagioni le quali perdono o confondono i primitivi e propri significati
e la proprietà delle parole e di tutto ciò che spetta alla favella.
I
cattivi parlatori e i trascurati scrittori, sono dunque secondo me, le prime e
principali origini dei sinonimi in qualunque lingua. Possiamo anche dire, il
tempo, il quale non permette che le cose umane conservino una stessa
condizione. Anche gli scrittori eleganti, e massime i poeti furono in causa di
questo effetto: perchè l’eleganza consiste nel pellegrino e diviso dal volgo; e
quindi gli usi metaforici, quindi gli ardiri, le inversioni di significato ec.
ec. che messe in uso dagli scrittori eleganti, passarono poi col tempo a
prender luogo di proprietà, scacciando le proprietà primitive, e confondendo il
significato delle parole proprie, con quello delle parole usate metaforicamente
o in qualunque altro modo, nello [1482]stesso senso. Anche i parlatori
eleganti o affettati sono da considerarsi in questo proposito.
Queste
osservazioni spiegano il perchè sia sempre maravigliosa, e caratteristica negli
antichi scrittori la proprietà della favella. Ciò non avviene di gran lunga
perch’essi fossero più diligenti. Chi può pur paragonare la diligenza de’
nostri tempi in qualunque genere, con quella degli antichi? L’esattezza e la
minutezza non era propria de’ tempi antichi, bensì precisamente de’ moderni,
per le stesse ragioni per cui non è propria di questi la grandezza, ch’era
propria di quelli. Anche in ogni cosa appartenente a lingua o stile, i
diligenti scrittori moderni, ed anche i mediocri la vincono in esattezza sopra
i più diligenti scrittori antichi. Basta conoscerli bene per avvedersene. V. la
mia lett. sull’Eusebio del Mai, nell’osservazione segnata XVI. 23. 71. 23.
Recherò fra i moltissimi esempi che si potrebbero, una nota che fa un
Traduttore francese alla Catilinaria di Sallustio, solamente per dar meglio ad
intendere il mio pensiero. (Dureau-Delamalle, Oeuvres de
Salluste. Traduction nouvelle. Note 45. sur la Conjurat. de Catilina à Paris
1808. t.1. p.213.) Les bons écrivains de l’antiquité [1483]n’avaient
pas, il s’en faut, nos petits scrupules minutieux sur ces répétitions des mêmes
mots, surtout lorsque la différence de cas en mettait dans la terminaison,
comme dans ce passage-ci, ou l’on voit MAGNAE COPIAE après MAGNAS
COPIAS. Parla di quel
luogo (Sall. Bell. Catilinar. c.59. al.56.) Sperabat propediem magnas copias
se habiturum, si Romae socii incepta patravissent: interea servitia repudiabat,
cuius initio ad eum magnae copiae concurrebant.
Non la
maggior diligenza dunque, ma l’esser gli scrittori antichi più vicini alle
prime determinazioni de’ significati e formazioni delle parole, e il formarne
essi stessi, non per lusso, che gli antichi non conoscevano, ma per bisogno, o
per utile, fanno ch’essi si riguardino e siano veri modelli della proprietà
delle voci e dei modi. E infatti la diligenza che vien dall’arte come pur la
produce, è in ragione inversa dell’antichità. Ora la proprietà degli scrittori
è in ragion diretta; e Plauto e Terenzio e gli altri antichi latini i più
rozzi, sono [1484]tanto più propri quanto meno eleganti di Cicerone.
Così i trecentisti ignorantissimi, rispetto ai cinquecentisti ec. Dante
rispetto al Petrarca e al Boccaccio ec. V. la p.1253.
Posto
dunque che una parola non è mai o quasi mai sinonima di un’altra della stessa
lingua primitivamente, e che le parole non divengono sinonime se non col tempo,
e a causa principalmente sì degli scrittori eleganti e de’ poeti, sì molto più
de’ cattivi scrittori e parlatori; ne segue che siccome tutte le lingue,
eccetto le primitive, derivano da corruzione di altre lingue, e sono loro
posteriori nel tempo ec. così le lingue figlie generalmente parlando denno
abbondare di veri ed effettivi sinonimi più delle rispettive madri.
Così
appunto è avvenuto all’italiana rispetto alla latina, sua madre. I sinonimi
esistono realmente nella lingua italiana, vi esistono fin da principio (benchè
da principio non tanti): la lingua italiana ha, non deve negarsi, verissimi
sinonimi, e ne ha in grandissima copia, forse più che altra lingua colta; e ne
ha più assai [1485]che non n’ebbe la buona latina. Tutte le lingue
moderne colte, generalmente parlando, hanno assai più sinonimi veri e perfetti
che le lingue antiche. Effetto del tempo che distrugge a poco a poco le piccole
e sfuggevoli differenze fra i significati di parole, che tuttavia non furono
inventate per lusso, ma per vera utilità. Nessuna o quasi nessuna nuova parola
che si venga oggi formando e introducendo nelle diverse lingue, è sinonima di
altre che già vi si trovino. (Parlo di quelle lingue dove non si vanno
introducendo per pura affettazione, ignoranza, barbarie, delle parole straniere
affatto inutili, e in pregiudizio delle nazionali. Si ponno anche eccettuare
alcune di quelle parole che formano talora i poeti, che non sempre nè spesso,
ma pur talvolta potranno esser sinonime di altre già usate, ed esser preferite
e formate per sola eleganza, e per una certa peregrinità, o dedotte dal latino
ec.) Ciò mostra che i sinonimi non sono mai tali da principio, e che la
sinonimia non è primitiva. Ma le parole che già da gran tempo appartengono a
ciascuna lingua, o appartenessero alle loro madri, o no, son divenute, e
divengono di mano in mano sinonime, e tali diverranno anche molte
recentissimamente formate: e ciò massimamente per la trascuranza del favellare
e scrivere, e per l’abuso, che siamo forzati di chiamar uso, e riconoscerlo per
padrone legittimo. E questo è sì certo che si può con un poco di attenzione,
cominciando dai più [1486]antichi scrittori di una lingua e venendo sino
agli ultimi, osservare come due o più parole oggi sinonime, e che da prima non
erano, si siano venute gradatamente avvicinando nel significato, e scambiandosi
vicendevolmente in questo o quell’uso, fino a confondersi del tutto insieme in
qualsivoglia uso ec. Alcune parole son divenute sinonime in quest’ultimo grado,
altre in qualcuno de’ gradi antecedenti, e si possono usare promiscuamente in
tali casi sì, in altri no: ma tuttogiorno, stante la negligenza e ignoranza
degli scrittori e parlatori, vanno acquistando maggior somiglianza, finchè
arriveranno alla medesimezza.
Consideriamo
ora le conseguenze di questo effetto. Si riguardano i sinonimi come ricchezza
di una lingua. Ma ella è ricchezza secondaria, e la principal ricchezza e
varietà è quella che ho detto p.1479. Ora la ricchezza dei sinonimi nuoce
sommamente a questa. La lingua italiana ha più sinonimi assai che la latina. È
ella perciò più ricca di lei? Figuriamoci che 30.m voci latine, tutte [1487]distinte
di significato, sieno passate nella lingua italiana, ma in modo che in vece di
30.m cose, ne significhino solo 10,000: tre parole per significato. Che giova
all’italiano il poter dire quelle 10,000 cose ciascuna in tre modi, se quelle
altre ventimila che i latini significavano distintamente, egli non le può
significare, o solo confusamente? Questa è povertà, non ricchezza. Non è ricco
quegli il cui podere abbonda di vigna e di frutta, e manca di grano; nè quegli
che abbonda del superfluo e manca del necessario.
Quindi
potremo spiegare un fenomeno intorno alla ricchezza delle lingue antiche, che
non mi pare nè abbastanza osservato, nè dilucidato. Le lingue si accrescono col
progresso delle cognizioni e dello spirito umano. Il numero delle parole di
senso certo, dicono i filosofi, determina il numero delle idee chiare di una
nazione (Sulzer.) Viceversa dunque potremmo dire delle idee chiare, le quali
non sono quasi mai tali se non hanno la parola corrispondente. Ora [1488]chi
dubita che il numero delle nostre idee chiare non vinca d’assai quello delle
antiche? che il nostro spirito non solo abbracci molto maggior estensione di
cose, ma veda sempre più sottile e minuto, ed abbia acquistato un abito di
precisione ed esattezza, senza paragone maggiore che gli antichi? E pure
consideriamo le antiche lingue colte, e non ci troveremo, com’è naturale, la
facoltà di esprimere le cose o gli accidenti ch’essi non conoscevano, e le idee
moderne ch’essi non avevano; o quelle parti delle loro stesse idee, ch’essi non
discernevano, almeno chiaramente, ma quanto a tutto ciò che gli antichi
potevano aver da significare, o voler significare, quanto a tutte le idee che
potevano cadere nel loro discorso, troveremo generalmente parlando nelle lingue
antiche colte, una facoltà di esprimersi tanto maggiore che nelle moderne, una
onnipotenza, un’aggiustatezza, una capacità di variar l’espressione secondo le
minime varietà delle cose da esprimersi, e delle congiunture e circostanze del
discorso, che forse e senza forse non ha pari in veruna delle più colte lingue
moderne: ed è perciò che le lingue antiche sono generalmente riconosciute
superiori in ricchezza alle moderne.
Ora qual
è la cagione? Vero è che il tempo abolisce molte parole, ma infinite pur ne
introduce. [1489]La causa, secondo me, o una delle cause di questo, che
veramente è fenomeno, sta in ciò, che le parole destinate talora a simili,
talora anche a diversissimi significati, divengono col tempo sinonime, e
laddove da prima, e nelle antiche lingue ch’erano più vicine all’origine delle
parole, esprimevano più e più cose, o accidenti e modificazioni di cose, oggi
esprimono una cosa sola. E così la proprietà della lingua latina veramente
ammirabile non si può trovare nella italiana sua figlia, e nelle altre, che
hanno tanto confuso i distintissimi significati delle parole che hanno
ereditato da lei. E questo male va sempre e inevitabilmente crescendo, ed è
cosa dannosissima alla precisa espression delle idee, e quindi alla precisione
e chiarezza delle idee stesse. Colpa non tanto degli uomini, quanto della
natura, e del tempo al quale siamo venuti.
Veniamo
ai rimedi. Voler richiamare le parole ai loro antichi precisi significati, e
tornarli a distinguere, e usarle nel senso antico ec. tuttociò è tanto
impossibile e pedantesco, quanto il rimettere in uso le parole e modi
antiquati, e parlare come parlavano i latini, o i nostri primi italiani ec.
Quelli che hanno preso cura, scrivendo partitamente dei sinonimi, di precisare [1490]il
valore di ciascun vocabolo partecipante al significato di altri vocaboli, hanno
piuttosto servito e servono alla filosofia, alla storia delle lingue, e a molte
altre cose utilissime; di quello che all’uso, e alla conservazione de’
significati, ed alla osservanza dell’etimologie ec. insomma ad impedire la
confusione de’ significati, e l’abolizione successiva delle loro piccole differenze,
che l’abuso e il tempo non può non cagionare, e non cagionerà niente meno.
Forze di questa fatta, non ponno esser vinte da un’opera, o da un Dizionario
ec.
Il
rimedio dunque agl’inconvenienti del tempo che nuoce alle lingue, e necessita
la novità delle parole, non meno coll’abolirne assai, che col sopprimerne le
differenze de’ significati, e restringere il numero di essi, è l’adottar nuove
parole che esprimano quelle cose o patti o differenze di cose, ch’erano
espresse da voci divenute sinonime e conformi di valore ad altre primitivamente
diverse. E se, come ho detto di 30.m. parole latine passate nell’italiano, [1491]non
restano che 10.m. significati, a voler che la lingua italiana adegui veramente
la ricchezza della madre, in ordine a questa medesima parte di essa, bisogna ch’ella
trovi altre 20 mila parole che abbiano i i detti significati perduti. 1 Ed
allora ella vincendo la latina nella copia de’ sinonimi, e nella varietà, nell’eleganza
ec. che risulta da essi, l’agguaglierà pure nella vera ricchezza e varietà, e
la sinonimia non pregiudicherà alla proprietà ec. del discorso.
Diranno
che questo la lingua italiana l’ha già fatto ec. Negolo risolutamente. Convengo
che la lingua italiana, servendosi sì delle fonti latine, coll’attingerne più
di quello che il linguaggio popolare ne avesse attinto; sì della vivacità della
immaginazione italiana, con bellissima e somma facoltà di metafore ec. ec. sì
di molti altri mezzi, non sia giunta a proccurarsi una proprietà, una copia,
una ricchezza, una facoltà insomma di esprimersi maggiore forse che qualunque
altra moderna; eccetto però nelle materie filosofiche, [1492]e in tutto
ciò che ha bisogno di precisione (diversa dalla proprietà), e generalmente
nelle cose moderne, e posteriori a’ suoi buoni tempi. Non nego neppure che la
lingua italiana non abbia conservato della sostanza materna assai più delle
altre, e meglio, secondo che ho spiegato p.1503. Ma ch’ella sia, non ostante la
sua gran copia di sinonimi, anzi a causa in gran parte di questa, inferiore
ancora non poco alla proprietà, ed alla ricchezza della sua madre, chi ne
dubita? E si può veder chiaramente nelle traduzioni. Pigliate una carta, non
dico di Tacito o di Sallustio, ma di Livio o di Cicerone, e senza curarvi dell’eleganza,
vedete se v’è possibile di rendere così esattamente ogni parola e ogni frase,
che la vostra traduzione dica precisamente quanto il testo, e nè più nè
meno. Vedrete quanto manchi ancora alla lingua italiana per riuscirci, quante
parole e modi latini non abbiano affatto l’equivalente in italiano, e quanti
sensi, minuti sì ma distintissimi, non si possano assolutamente significare
nella nostra lingua, ch’è pur nelle traduzioni ec. la più potente delle tre
sorelle. E dovrete convenire che lo scrivere [1493]italiano è ancora
generalmente e complessivamente inferiore visibilmente al latino, nella
proprietà, e nella varietà dell’espressione adattate alle minute varietà delle
cose: e questo anche indipendentemente da quelle sottilissime ma effettive
differenze che hanno tra loro i significati delle parole e frasi le più omonime
nelle diverse lingue, anche le più affini.
Così
dalla considerazione della teoria de’ sinonimi, i quali io dico non esser
primitivi, ma veri, e frequenti nelle lingue moderne, si deduce una nuova
fortissima prova della necessità della novità nelle lingue. E si conferma
particolarmente, in ordine alla lingua italiana, la convenienza di seguitare ad
attingere dalle fonti latine, quelle parole e frasi, che non essendo ancora
introdotte nella nostra lingua, non ponno aver perduta la differenza di
significato, con le altre già derivate dalla stessa fonte, nè esser divenute
sinonime ec. Mezzo spedito ed ottimo per accrescere la proprietà, e [1494]la
sostanziale ricchezza della nostra lingua, e adeguarla, s’è possibile, alle
antiche. Giacchè la lingua latina è forse la più propria di queste, e quindi
gran proprietà ed esattezza dee derivare dall’arricchirsi nuovamente alle sue
fonti non ancor tocche ec.
Qual
lingua è più varia della latina? (se non forse la greca). E quale è più
propria? neppur forse la greca. E dalla proprietà deriva naturalmente la
varietà, come ho detto p.1479. Ella era strettamente propria per legge, e non
avrebbe scritto latino ma barbaro, chi non avesse scritto con proprietà: laddove
la greca potendo essere altrettanto e più propria, era più libera, ed ho già
osservato altrove come ciascuno scrittor greco, abbia un vocabolarietto
particolare, cioè faccia uso continuo delle stesse voci, e si restringa ad una
sola parte della sua lingua, con che la proprietà non può esser perfetta. Ai
latini bisognava una perfetta cognizione ed uso della loro lingua, non solo in
grosso ma in particolare, e quindi il vocabolario che si può formare a ciascun
buono scrittore latino è [1495]generalmente molto più ampio che a
qualunque greco classico. E pur la lingua greca era più ricca della latina. Ma
la lingua di ciascun latino era più ricca che di ciascuno scrittor greco.
Eccetto gli scrittori greci più bassi, come Luciano, Longino ec. i quali sono ricchissimi,
e tanto più quanto il loro stile è meno antico, perchè i contemporanei, come
Arriano, Dionigi Alicarnasseo, sono più antichi di stile, e meno ricchi di
lingua. La stessa immensa ricchezza della lingua greca impoveriva gli
scrittori, finch’ella non fu studiata con un’arte perfetta ch’è sempre propria
de’ tempi imperfetti e scaduti.
Ora
tornando al proposito, qual lingua, malgrado tutte le dette qualità, era più
scarsa di vera sinonimia che la latina, non pur nelle voci, se così posso dire,
nelle locuzioni? E pur ella era così varia ec. Anzi la mancanza appunto di
sinonimia produceva quella ricchezza individuale di ciascheduno scrittore, ch’era
obbligato a mutare espressione ad ogni piccola varietà del discorso. La
sinonimia è maggiore assai negli antichi e ottimi greci, [1496]cioè
finchè la lingua greca non fu pienamente posseduta per arte e studio. Quando lo
fu, la sinonimia fu minore assai, e la varietà e la proprietà molto maggiore. E
Luciano è assai più proprio d’Isocrate tanto studioso della sua lingua. Così
che la squisita proprietà è realmente aliena dall’ottima lingua greca, e muta
il di lei carattere negli scrittori più recenti, e gli accosta al carattere del
latino. I latini venuti a tempi signoreggiati dall’arte, possederono sempre
pienamente e interamente la loro lingua.
Consideriamo
però le lingue antiche, consideriamo i primi scrittori di ciascuna lingua
moderna, e vedremo che la sinonimia è assolutamente scarsissima rispetto alle
lingue e alle scritture moderne. Dal che si conferma ch’ella non è primitiva,
ma prodotta e continuamente accresciuta dal tempo, con danno grande della
proprietà, della forza ec. e della vera ricchezza. Danno irreparabile per se
stesso, e al quale poco sufficiente ostacolo può porre la determinazione [1497]del
valor preciso delle parole, i vocabolari, i dizionari de’ sinonimi ec. Danno
pertanto che obbliga assolutamente alla novità delle parole, solo mezzo di
riparare all’impoverimento che il tempo arreca alle lingue per questo verso, e
che è tanto inimpedibile quanto quello che arreca loro colla soppressione delle
parole; e maggiore, secondo me, non poco.
Dovunque
prevale la sinonimia quivi la proprietà soffre assai. Gli scrittori italiani
possono rassomigliarsi ai greci nel riguardo che ho detto, sì come ho notato
altre volte. Nè solo gli scrittori ma la lingua eziandio. La latina può
rassomigliarsi per questo lato, come ho pur detto altrove, alla francese.
Quella fra le antiche, questa fra le moderne, sono forse le più scarse di vera
sinonimia. Quindi anche allo scrittor francese è necessario il posseder bene e
interamente la sua lingua, cosa non necessaria agl’italiani, non dico per
iscriver bene, ma per poter pur scrivere in italiano.
Sebbene
però e la lingua francese e la latina scarseggiano di vera sinonimia, e sono [1498]similissime
in questo che ambedue dipendono sommamente dall’arte, e da un’esatta
determinazione ec. nondimeno le differenze fra loro, anche sotto l’aspetto che
noi consideriamo, sono grandissime. La lingua francese scarseggia di sinonimia,
non tanto per esattezza, nè per una perfetta conservazione del valor primitivo
delle parole (come la latina) quanto per povertà. Una lingua povera sarà sempre
esatta, purchè la povertà non giunga all’altro estremo, nel quale si trova p.e.
la lingua ebraica. La differenza de’ tempi e delle cagioni produce la
differenza degli effetti. L’arte antica rese propria e sostanzialmente ricca la lingua latina fra tutte le altre. L’arte moderna e matematica, volendo
rendere esatta la lingua francese, l’ha resa poverissima. Quindi dalla sua
esattezza, e dalla scarsezza de’ suoi sinonimi, non nasce nè proprietà, nè
forza, nè varietà, nè ricchezza. L’esattezza dello scriver latino, li portava a
variar espressione secondo le minime varietà del discorso. Non così ponno fare
i francesi. La parola o la frase che adoprano è certamente quella che offre la
loro [1499]lingua, quella che conviene, e che non potrebbe scambiarsi
con un’altra. Ma ella torna bene spesso, perch’ella conviene a molte cose, ella
perciò non produce nè proprietà nè forza, poichè bene spesso non conviene a
quella tal cosa, se non perchè la lingua è povera e non ha altro modo da
esprimerla, nè da differenziarla da altre cose, o parti, o accidenti ec. ec.
ec. Dico ciò generalmente parlando, ed eccettuando quelle materie nelle quali
la lingua francese abbonda di parole precise. Ma la precisione (in cui la
lingua francese regna) come non abbia a far colla proprietà, e come da lei non
derivi nè bellezza nè varietà nè forza (la quale è sempre relativa all’immaginazione
mentre la precisione parla alla ragione), l’ho detto altrove. Ora io qui non
parlo che della proprietà, e considero le lingue e la ricchezza loro, piuttosto
intorno al bello, che all’esatto ec.
Del
resto gli scrittori antichissimi e primitivi, non meno italiani e greci, che
latini e francesi, sono sempre sommamente propri, e scarseggiano di sinonimia.
Ciò accade, perch’essi, ancorchè senza studio, pur possedevano assai bene e
pienamente la lingua, ancorchè vastissima, ch’essi stessi creavano o formavano,
tanto in ordine al generale e all’indole, quanto in ordine ai particolari, e
alle parole e modi, e alla determinazione dei loro significati ec. e v. la
pag.1482-84. la quale, stante questa riflessione, non contraddice alla
pag.1494-96.
Dalla
teoria che abbiamo dato dei sinonimi si deducono alcune osservazioni intorno
alla [1500]diramazione e diversità delle lingue nate da una stessa
madre, massime da una madre già formata, colta, ricca, letterata ec. Nata
appoco appoco la sinonimia nella lingua madre, e quindi diffusa questa in
diverse parti, non tutti i sinonimi passano a ciascuna lingua figlia, ma
solamente alcuni a questa, altri a quella. E questa è pur una delle cagioni
della maggior ricchezza e proprietà delle lingue antiche. Le lingue figlie di
una madre già formata, per lo più sono meno ricche di lei. Il tempo dopo aver
soppresso le differenze de’ significati (sia prima della diffusione, e presso
la nazione originariamente partecipe di quella lingua, sia molto più dopo, e
presso le nazioni che sempre corrottamente la ricevono e sempre mancante e
povera, per la ignoranza e la difficoltà d’imparare una lingua nuova, e l’impossibilità
di ricevere e praticar tutta intera una tal lingua ricca ec. ec.), il tempo,
dico, sopprime quindi naturalmente una buona parte de’ sinonimi, conservandone
solo uno o due per significato, che prevalendo appoco appoco nell’uso, fanno
dimenticar gli altri ec. Così le lingue perdono [1501]appoco appoco
necessariamente di ricchezza e di proprietà, a causa della sinonimia. Oltre che
le lingue figlie, nascendo da corruzione, e dagli stessi danni che il tempo
reca alla sostanza materna, non la possono mai di gran lunga ereditar tutta
intera. E così il fondo delle lingue si va sempre scemando se per altra parte non
si accresce, e le lingue che nascono sono sempre più povere di quelle
che le producono, almeno nei principii.
Questa è
pur, come ho detto, una gran ragione della differenza delle lingue figlie di
una stessa madre. In questa nazione prevale il tal sinonimo, e gli altri si
dimenticano, o non s’introducono mai. In quella il tal altro. Questa ne riceve
o ne conserva un solo nel tale o tal significato, quella due, quell’altra più
ec. Così è accaduto alla lingua latina diramata nelle Spagne, nella Francia, in
Italia. E troveremo spessissimo che la differenza con cui si esprimono le dette
tre lingue in questo o quel caso, nasce dalla differenza del sinonimo latino
che hanno conservato, o da principio adottato. Gl’italiani e i francesi per
significare il bello usano una parola derivata dalla latina bellus; gli
spagnuoli una derivata dalla latina formosus. Gli spagnuoli e gl’italiani [1502]dicono moglie dal latino mulier, i francesi femme
da femina. Similmente differiscono nel numero. Altra ha conservato o
adottato più sinonimi latini, altra meno. Relativamente a questo la lingua
francese tiene la estremità del meno, la spagnuola il mezzo, l’italiana il più,
tanto per la sua circostanza nazionale, quanto pel moltissimo ch’ella ha
seguito ad attingere dalle fonti latine, appena divenuta letterata. E troveremo
spessissimo che, poniamo caso, di 5 o 6 parole latine divenute sinonime col
tempo, l’italiana le avrà conservate, e le userà anche volgarmente o tutte o
quasi tutte, gli spagnuoli, e massime i francesi appena una. Certo è raro che
si possano trovar nella lingua francese due parole latine perfettamente
sinonime o fino ab antico, o almeno nel loro presente uso. Piuttosto avranno
parecchie parole prese d’altronde, che sieno sinonime di altre latine da loro
pur conservate.
Queste
considerazioni ci menano alla conseguenza del quanto ragionevole e giusto sia
per la nostra lingua il seguire ad arricchirsi alle fonti latine. Le lingue
madri non denno mai stimarsi chiuse alle figlie; noi abbiamo [1503]delle
lingue sorelle che possono pure attingere a una stessa fonte con noi, ma la
nostra lingua assai più delle altre due. La nostra lingua, com’è naturale a
quella ch’è parlata dalla stessa nazion latina, e che fu poi modellata da’ suoi
formatori sulla di lei madre, tiene assai più che le altre sorelle, sì dell’indole
e delle forme, sì del suono stesso e della figura esterna delle parole latine,
del significato, della pronunzia stessa del latino ec. sì dell’andamento ec.
della madre. Ed oltracciò, come ho detto, e come anche per cento altri lati si
può vedere, ella ha ereditato della sostanza materna, o se n’è poscia
rivendicata assai maggior porzione che le sorelle. Tutte queste cose fanno che
l’indole dell’italiano essendo più latina, che non è lo spagnuolo e il
francese, ella si adatti benissimo alle nuove parole latine, frasi, forme ec. e
queste sieno tanto meno forestiere in casa sua, quanto maggior copia ella già
ve ne alloggia. E che la lingua italiana quanto più ha preso, ed è abituata a prendere dal latino, tanto più, e sempre proporzionatamente di più ne possa
prendere. Giacchè così va la bisogna rispetto alle [1504]lingue. E già
in tutte le cose la convenienza si misura dall’indole e dal costume, e la
novità è tanto più facile a introdurre ec. quanto è più simile al vecchio ec.
Le lingue spagnuola e francese (e massime questa) appunto perchè meno hanno
preso dal latino, e perchè è stata proprietà loro la parsimonia in questo
particolare, e perchè non sono tanto conformi allo spirito del latino (anzi la
francese in nessun modo), ec. ec., perciò volendo conservare il loro carattere,
non possono neppur oggi attingerne più che tanto. Viceversa l’italiana, la
quale conserverà il suo carattere primitivo, seguendo ad attingerne come
primitivamente ha fatto, e s’è accostumata a fare.
Ogni
volta che si troverà citato in questi fogli il Du Cange, Glossario
latino-barbaro, si avverta che nella mia edizione, non è tutto del Du Cange. Vi
sono parecchie giunte e correzioni de’ Monaci Maurini editori, contrassegnate
nei modi che si specificano nella loro prefazione p.8. dopo il mezzo.
L’influenza
della sinonimia sui linguaggi è tanta, e sì potentemente contribuisce alla
corruzione, alterazione, sovversione, ed anche al totale cambiamento delle
lingue, che ad essa in [1505]gran parte si possono riferire tutti i
detti effetti, la difficoltà di ritrovar l’etimologie, le diversissime facce
delle lingue madri rispetto alle lingue figlie, che spesso appena si ravvisano
per parenti, e le graduate, ma infinite diversificazioni di significato che
subirono le parole passando di una in altra lingua, con che arrivarono a non
esser più intese in altra nazione che da principio parlava la stessa favella, a
compor lingue differentissime, che non si tengono più per parenti, benchè
composte in buona parte di parole che originariamente erano le stesse; e
derivate da una stessa fonte, che a causa di queste infinite alterazioni più
non si trova. La sinonimia, dico, si dee riconoscere per causa immediata di
gran parte di tutto ciò, riconoscendo per cause prime o mediate ec. altre cose
più materiali, come la diffusione ec. ec. Or come la sinonimia? Eccolo. Non
solo i significati simili o poco differenti delle diverse parole, ma anche i
più distinti e lontani sono confusi dal tempo, dalla negligenza, dall’ignoranza
di coloro a’ quali trasmigra una nuova lingua ec. dallo stesso uso di parlare o
scrivere elegante e metaforico ec.: così che delle parole disparatissime
divengono sinonime. P.e. [1506]presso gli spagnuoli il verbo quaerere
(querer) è passato a significar velle, volvere (bolver) redire,
circa (cerca) prope; presso i medesimi e gl’italiani il verbo clamare (llamar, chiamare) al senso di vocare; presso i
francesi donare (donner) al senso di dare. Questo per
forza di sinonimia che appoco appoco rendendo proprio di quelle voci quel senso
disparatissimo, ha spento quelle che l’aveano realmente in proprietà ec. ec. L’etimologia
di queste voci, e il modo in cui sono arrivate a questo significato ec.
facilmente si trova, riguardo alla lingua latina ch’è la madre immediata di
dette tre lingue. Ma facciamo conto che dallo spagnuolo o dal francese nascesse
una nuova lingua, come certo nascerà col tempo, giacchè esse medesime son già
molto diverse da’ loro principii; certo che gli etimologisti si troverebbero
imbrogliatissimi, ancorchè seguitassero ancora a conoscer bene l’antico latino,
come già si trovano molto confusi intorno a molte parole derivate pure
immediatamente dal latino, ma tanto svisate di significato che più non si
raffigurano. Così le lingue si alterano e si mutano giornalmente, e le parole,
quanto al significato, [1507]si sovvertono mirabilmente, e l’etimologie
si perdono, e le lingue primitive si nascondono (come son già nascoste) a causa
della sinonimia, non meno che per le altre cause.
Paragonando
le occupazioni di un mercante che travaglia a’ suoi complicatissimi negozi, e
di un giovane che scherza con una donna, quella ci par serissima, e questa
frivolissima. E pure qual è lo scopo del mercante? il far danari. E perchè? per
godere. E come si gode quaggiù? collo spassarsi; e uno de’ maggiori spassi e
piaceri è quello che si piglia colle donne. Dunque lo scopo del mercante in
ultima analisi è di potersi a suo agio, e con molti mezzi occupare in quello
stesso in che si occupa il giovanastro, o in cose tali. Se dunque il fine è
frivolo, quanto più il mezzo. Tutto dunque è frivolo a questo mondo, e l’utile
è molto più frivolo del semplicissimo dilettevole. Così dico degli studi, e
delle carriere ec.
(16.
Agos. 1821.)
La
brevità non piace per altro, se non perchè nulla piace. Anche i maggiori
piaceri [1508]si bramano, e denno esser brevi, e lasciar desiderio,
altrimenti lasciano sazietà. Ma non v’è mezzo fra questi due estremi? non
possono lasciar paghi? No. Se l’uomo potesse appagarsi di un piacere nè la
brevità nè la varietà (che deriva dalla brevità, e l’include ed importa, ed è
quasi tutt’uno con lei) non sarebbero piacevoli per se stesse, nè amate dall’uomo.
Ora siccome l’uomo non può restar pago, e la sua peggior condizione è la
sazietà, perciò una principalissima qualità de’ piaceri e delle sensazioni
interiori o esteriori che servono alla felicità, si è che lascino desiderio, si
è la brevità, e varietà loro, e la varietà della vita.
Senza
notabile facoltà di memoria nessun ingegno può acquistare, svilupparsi,
assuefarsi, imparare, cioè nessun ingegno può nè divenire nè meno esser grande;
perchè quelle sensazioni, concezioni, idee, che non sono se non momentanee, e
si perdono, non possono produrne e prepararne delle altre, e non possono quindi
servire alla grandezza di un ingegno, tutte le cui cognizioni sono acquisite, e
le cui facoltà sono quasi nulle, e conformi a quelle de’ menomi [1509]ingegni
senza la coltura dell’esperienza, la qual esperienza è vana senza la memoria.
La memoria si può generalmente considerare come la facoltà di assuefazione che
ha l’intelletto. La qual facoltà è il tutto nell’uomo.
(17.
Agos. 1821.)
Un viso,
come ho detto altrove, ci par molte volte bruttissimo per la somiglianza che vi
troviamo con un altro brutto, o di contraggenio per noi, o tenuto per brutto. E
si può di leggeri osservare che tolta l’idea di questa somiglianza, egli non ci
parrebbe così brutto; e forse tal volta quella somiglianza sarà tale che non
impedisca a quella fisonomia di essere regolarissima, malgrado l’irregolarità
di quella cui somiglia. E nondimeno la detta idea ci produce una sensazione
dispiacevole nel vederla, e non la chiameremo mai bella, benchè altri privi di
detta idea la tengano anche universalmente per tale. Così una persona che da
fanciulla ci è parsa brutta, e che siamo avvezzi a considerar come tale, benchè
[1510]divenga poi bella, non mai, o non senza difficoltà potrà piacerci
(quando non vi siano altre cause particolari); e forse massimamente se l’abbiamo
sempre veduta crescere e formarsi. Tanto può l’opinione sull’idea del bello ec.
(17.
Agos. 1821.). V. p.1521.
Il
bambino non ha idea veruna di quello che significhino le fisonomie degli
uomini, ma cominciando a impararlo coll’esperienza, comincia a giudicar bella
quella fisonomia che indica un carattere o un costume piacevole ec. e
viceversa. E bene spesso s’inganna giudicando bella e bellissima una fisonomia
d’espressione piacevole, ma per se bruttissima, e dura in questo inganno
lunghissimo tempo, e forse sempre (a causa della prima impressione); e non s’inganna
per altro se non perchè ancora non ha punto l’idea distinta ed esatta del
bello, e del regolare, cioè di quello ch’è universale, il che egli ancora non
può conoscere. Frattanto questa significazione delle fisonomie, ch’è del tutto
diversa dalla bellezza assoluta, e non è altro che un rapporto messo [1511]dalla
natura fra l’interno e l’esterno, fra le abitudini ec. e la figura; questa
significazione dico, è una parte principalissima della bellezza, una delle
capitali ragioni per cui questa fisonomia ci produce la sensazione del bello, e
quella il contrario. Non è mai bella fisonomia veruna, che non significhi qualche
cosa di piacevole (non dico di buono nè di cattivo, e il piacevole può bene
spesso, secondo i gusti, e le diverse modificazioni dello spirito, del
giudizio, e delle inclinazioni umane esser anche cattivo): ed è sempre brutta
quella fisonomia che indica cose dispiacevoli, fosse anche regolarissima. Si
conosce ch’ella è regolare, cioè conforme alle proporzioni universali ed a cui
siamo avvezzi, e nondimeno si sente che non è bella. Ma ordinariamente, com’è
naturale, la regolarità perfetta della fisonomia indica qualità piacevoli, a
causa della corrispondenza che la natura ha posto fra la regolarità interna e l’esterna.
Ed è quasi certo che una tal fisonomia appartiene sempre a persona di carattere
naturalmente perfetto ec. Ma siccome [1512]l’interno degli uomini perde
il suo stato naturale, e l’esterno più o meno lo conserva, perciò la
significazione del viso è per lo più falsa; e noi sapendo ben questo allorchè
vediamo un bel viso, e nondimeno sentendocene egualmente dilettati (e forse
talvolta egualmente commossi), crediamo che questo effetto sia del tutto
indipendente dalla significazione di quel viso, e derivi da una causa del tutto
segregata ed astratta, che chiamiamo bellezza. E c’inganniamo interamente
perchè l’effetto particolare della bellezza umana sull’uomo (parlo specialmente
del viso che n’è la parte principale, e v. ciò che ho detto altrove in tal
proposito) deriva sempre essenzialmente dalla significazione ch’ella contiene,
e ch’è del tutto indipendente dalla sfera del bello, e per niente astratta nè
assoluta: perchè se le qualità piacevoli fossero naturalmente dinotate da tutt’altra
ed anche contraria forma di fisonomia, questa ci parrebbe bella, e brutta
quella che ora ci pare l’opposto. Ciò è tanto vero che, siccome l’interno dell’uomo,
come ho detto, si cambia, e la fisonomia non corrisponde alle sue qualità (per
la maggior parte acquisite), perciò accade che quella tal fisonomia irregolare [1513]in
se, ma che ha acquistata o per arte, o per altro, una significazione piacevole,
ci piace, e ci par più bella di un’altra regolarissima che per contrarie
circostanze abbia acquistata una significazione non piacevole; nel qual caso
ella può anche arrivarci a dispiacere e parer brutta. E se una fisonomia è
fortemente irregolare, ma o per natura (che talvolta ha eccezioni e fenomeni,
come accade in un sì vasto sistema), o per arte, o per la effettiva
piacevolezza della persona che influisce pur sempre sull’aria del viso, ha una
significazione notabilmente piacevole; noi potremo accorgerci della sproporzione
e sconvenienza colle forme universali, ma non potremo mai chiamar brutta quella
fisonomia, e talvolta non ci accorgeremo neppure della irregolarità, e se non
la consideriamo attentamente, la chiameremo bella.
(17.
Agos. 1821.). V. p.1529. capoverso 2.
I
costumi delle nazioni cambiano bene spesso d’indole, massime coll’influenza del
commercio, de’ gusti, delle usanze ec. straniere. E siccome l’indole della
favella è sempre il fedelissimo ritratto dell’indole della nazione, [1514]e
questa è determinata principalmente dal costume, ch’è la seconda natura, e la
forma della natura; perciò mutata l’indole de’ costumi, inevitabilmente si
muta, non solo le parole e modi particolari che servono ad esprimerli
individualmente, ma l’indole, il carattere, il genio della favella. Pur troppo
è certissimo che l’indole de’ costumi italiani essendo affatto cambiata,
massime dalla rivoluzione in poi, ed essendo al tutto francese, è perduta quasi
effettivamente la stessa indole della lingua italiana. Si ha un bel dire. Una
conversazione del gusto, dell’atteggiamento, della maniera, della raffinatezza,
della leggerezza, dell’eleganza francese, non si può assolutamente fare in
lingua italiana. Dico italiana di carattere; e piuttosto la si potrebbe tenere
con parole purissime italiane, che conservando il carattere essenziale di
questa favella. Così dico dell’indole dello scrivere che oggi piace
universalmente. E troppo vero che non si può maneggiare in lingua italiana, e
meno quanto all’indole che quanto alle parole. È troppo vero che l’influenza
generale del [1515]costume francese in Europa, deve ed ha realmente
mutata l’indole di tutte le lingue colte, e le ha tutte francesizzate, ancor
più nel carattere, che nelle voci. E in tutta Europa si travaglia a richiamar
le lingue e letterature alla loro proprietà nazionale. Ma invano. Nelle parole
ch’è il meno importante si potrà forse riuscire: ma nell’indole, ch’è il tutto,
è impossibile, se ciascheduna nazione non ripiglia il suo proprio costume e
carattere; e se noi italiani massimamente (che siamo più soggetti all’influenza,
e a pigliar l’impronta straniera, perchè non siamo nazione, e non possiamo più
dar forma altrui) non torniamo italiani. Il che dovremmo pur fare: e coloro che
ci gridano, parlate italiano, ci gridano in somma siate italiani,
che se tali non saremo, parleremo sempre forestiero e barbaro. Ma non essendo
nazione, e perdendo il carattere nazionale, quali svantaggi derivino alla
società tutta intera, l’ho spiegato diffusamente altre volte.
Questa
influenza del costume e del carattere di una nazione sopra le altre civili, [1516]nessuna,
dopo il risorgimento della civiltà, l’ebbe più stabilmente della francese. L’ebbero
però anche altre, come l’Italia e la Spagna (e l’Inghilterra ultimamente), ma
per cagioni meno efficaci o salde, e però fu meno durevole. Ma in proporzione
della sua forza, fu sempre ugualmente compagna dell’influenza sulle lingue. Ne’
passati secoli però queste due influenze non potevano esser grandissime 1. pel
minor grado e strettezza di relazioni scambievoli in cui erano le nazioni: 2.
per la minor suscettibilità che queste avevano a perdere più che tanto del loro
carattere, e ricevere l’impronta straniera, e conservarla più che tanto tempo
ec. E ne avevan poca, perchè appunto non vi erano avvezze; e come è necessaria
l’assuefazione particolare a far che tal nazione pigli tal carattere straniero;
così è necessarissima l’assuefazione e disposizione generale, a far ch’ella
possa ricevere profondamente e conservare radicatamente un nuovo carattere.
Giacchè tutto è assuefazione sì nei popoli, come negl’individui. Ma in que’
tempi la civiltà non era ancora in grado sufficiente a vincere [1517]le
diverse nature de’ popoli, e le particolari abitudini, e le tenacità ordinarie
ec. nè a condurre il mondo all’uniformità. V. se vuoi, p.1386. Ora la civiltà
tira sempre, come altrove ho detto ad uniformare; e l’uniformità fra gl’individui
di una nazione, e fra le nazioni è sempre in ragione dei progressi generali o
particolari della civiltà. Ed ella tira quindi sempre a confondere, risolvere,
perdere ed agguagliare i caratteri nazionali, e quindi quelli delle lingue. Il
qual effetto visibilissimo oggidì sì in questi che in quelli, derivando da un
grandissimo e stabilissimo incremento della civiltà, non è maraviglia che sia
notabilissimo e durevolissimo, e che l’universalità e l’influenza della lingua
francese non si perda malgrado i cangiamenti politici, mentre non si perde nè
facilmente si perderà l’universalità e l’influenza che sopra questo secolo di
civiltà esercitano i costumi del popolo più civile del mondo.
I
costumi de’ greci anticamente, ebbero, in proporzione de’ tempi, grande
influenza [1518]sulle diverse nazioni. (Così forse anche altre nazioni
più anticamente.) Quindi l’universalità della loro lingua. Siccome le scienze e
discipline portano da per tutto e conservano le nomenclature che ricevettero
dalla nazione che inventolle e formolle, così anche i costumi. Ma le scienze si
estendono a pochi, poco terreno abbracciano, e poco influiscono sul carattere
delle lingue a cui passano. Laddove i costumi si estendono all’intere nazioni,
ed abbracciano tutta la di lei vita, e quindi tutta la lingua che n’è la copia,
e l’immagine.
Da
queste osservazioni si deduce che dopo che i costumi greci furono radicati in
Roma; dopo che i romani andavano ad imparar le maniere del bel vivere in
Grecia, come si va ora a Parigi; dopo che la moda, la bizzarria, l’ozio
derivato dalla monarchia, l’influenza della letteratura greca ec. ebbe
grecizzati i costumi e la conversazione di Roma; dopo che le case de’ nobili
eran piene di filosofi, di medici, di precettori, di domestici e uffiziali
greci d’ogni sorta; [1519]dopo che la letteratura romana fu
definitivamente modellata sulla greca, come la russa, la svedese, la inglese
del secolo d’Anna sulla francese; dopo tutto ciò la lingua romana doveva
necessariamente (quando anche non si sapesse di fatto) imbarbarire a forza di
grecismo, sì quanto ai particolari, sì quanto all’indole. E bisogna
attentamente osservare che il grecismo di que’ tempi, non era già quello d’Erodoto
o di Senofonte, e perciò la lingua e stile romano non fu mai semplice nè
inartifiziato; ma quello di Luciano, di Polibio ec. cioè contorto, lavorato,
elegante artifiziosamente, e similissimo all’andamento del latino. (V.
p.1494-6.) Il quale andamento molto si sbaglierebbe chi lo credesse passato dal
latino nel greco. Fu tutto l’opposto, e derivò dall’influenza del greco di
allora, il quale nè allora nè mai fu soggetto all’influenza del latino. E se la
lingua e lo stile latino classico fu sommamente più artifiziato per indole, che
il greco classico, ciò si deve attribuire all’indole della grecità
contemporanea al classico latino.
(18.
Agos. 1821.)
[1520]Tutte le nazioni hanno naturalmente
il loro particolar modo di vivere, di pensare, di concepire (come lo hanno gl’individui)
di vedere e idear le cose ec. Quindi tutte le lingue hanno i loro propri e
distinti caratteri, a’ quali corrisponde quello delle parole lor proprie. Non
si troveranno in 2 diverse lingue, 2 parole sinonime che minutamente
considerate esprimano un’idea precisamente ed interamente identica. Alcune
parole perfettamente considerate bastano talvolta a dipingere il carattere
della vita, del pensiero, dell’intelletto, dell’immaginazione, delle opinioni
ec. del popolo che le adopera. Quindi mutato costume e carattere, si muta
indispensabilmente l’indole della lingua.
(18.
Agos. 1821.)
E quindi
ancora si conferma quello che altrove ho sostenuto, che trattandosi di parole
il cui pregio consiste nella precisione del significato, e che denno suscitare
universalmente quella tal precisa idea (come in fatto di parole filosofiche,
scientifiche ec.); è perniciosissimo il mutarle, e sostituir loro una parola
che in altra lingua paia sinonima ad essa [1521]quanto si voglia. Non lo
sarà mai perfettamente, e la precisione e l’universalità di quell’idea si
perderà, se vorrassi staccarla dalla parola, che le appropriò la nazione che
ritrovò o determinò e rese chiara la detta idea.
(18.
Agos. 1821.)
Alla
p.1510. Quante cose ci paiono giornalmente brutte o belle, senza che n’abbiano
alcuna ragione in se stesse, ma per le somiglianze, relazioni che hanno, idee
che richiamano, o in tutti, ed allora le chiamiamo brutte o belle
assolutamente, o in noi soli, ed allora, se pur vi badiamo (che non accade
quasi mai) siamo forzati a chiamarle brutte o belle relativamente. Ho veduta
una soffitta dipinta a ritondi, o girellette disposte attorno attorno in
cerchio. Che cosa ha di brutto o di vile questa invenzione in se? Pur tutti la
condannavano perchè richiama l’idea di una tavola ritonda apparecchiata co’
suoi piatti in giro.
(18.
Agos. 1821.)
Il
passato, a ricordarsene, è più bello del presente, come il futuro a
immaginarlo. [1522]Perchè? Perchè il solo presente ha la sua vera forma
nella concezione umana; è la sola immagine del vero: e tutto il vero è brutto.
(18.
Agos. 1821.)
Ho
discorso spesso del bello che proviene dalla debolezza. Egli è un bello
proveniente da pura inclinazione, e quindi non ha che far col bello ideale, anzi
è fuori della teoria del bello. Infatti egli è del tutto relativo. Lasciando le
infinite altre cose dove la debolezza sconviene e dispiace, osservate che agli
uomini piace nelle donne la debolezza, perchè loro è naturale; alle donne negli
uomini la forza e l’aspetto di essa. Ed è brutta la forza nelle donne, come la
debolezza negli uomini. Se non che talvolta giova al contrasto, e dà grazia (ma
perchè appunto è straordinario, cioè non conveniente) un non so che di maschile
nelle donne, e di femminile negli uomini.
(18.
Agos. 1821.)
Gli
argomenti ch’io tiro dalla considerazione della grazia, in ordine al bello,
sono giusti, e giustamente dedotti; e si può argomentare dalla [1523]grazia
al bello o viceversa, e le teorie dell’uno e dell’altra comunicano e dipendono
scambievolmente, hanno principii comuni, ed elementi comuni, e son quasi due
rami di uno stesso tronco; e ciò in questo senso. Il bello è convenienza, la
grazia un contrasto, cioè una certa sconvenienza, o almeno un certo
straordinario nelle convenienze. Se dunque la sconvenienza è relativa, lo è
anche la convenienza; se dunque la grazia è mutabile, se ciò ch’è grazia per l’uno,
non lo è per l’altro ec. ec. ec. tutto ciò si dovrà pur dire del bello. Così
anche viceversa. E se la tal cosa ad altri pare straordinaria nelle
convenienze, ad altri no, ec. ec. ec. dunque l’idea della convenienza è
relativa. Io posso pertanto cavare indifferentemente le mie ragioni sì dall’esame
della grazia, come da quello del bello, per mostare, che quella o questo non è assoluto,
e per qualunque altro scopo di simil natura ec. Dalla grazia si può dunque
argomentare alla bellezza, per una ragione e in un modo simile a quello in cui
dal brutto si argomenta al bello, e dalla teoria dell’uno risulta quella dell’altro;
e così accade in tutti i contrarii.
(18.
Agos. 1821.)
La
facoltà di assuefarsi, in che consiste la memoria, e l’assuefazione ad
assuefarsi in che consiste quasi interamente [1524]la detta facoltà,
fanno che la memoria possa anche assuefarsi (come tutto giorno accade) a
ritenere un’impressione ricevuta una sola volta, supplendo l’assuefazione
generale all’assuefazione particolare, e venendo anche questo ad essere un
effetto dell’assuefazione di richiamare. I bambini che non hanno ancora quest’assuefazione,
o insufficiente, non ritengono impressione che non abbiano ricevuta più volte,
e alla quale non si siano individualmente assuefatti. E le stesse più buone
memorie non riterranno a lungo un’impressione non più ripetuta, s’essi medesimi
di tratto in tratto non se la ripetono, mediante l’immaginazione che la
richiama, vale a dire mediante successive reminiscenze, che formano l’assuefazione
particolare a quella tale impressione. E ciò che dico della memoria, dico delle
altre abitudini, ed abilità ec. (dipendenti pur da lei) che talvolta si possono
acquistare in un batter d’occhio, come imparare un’operazione di mano tanto da
poterla rifare, dopo averla veduta fare una sola volta. ec. Dove concorre la
facoltà e facilità di assuefazione della memoria, [1525]con quella degli
organi esteriori. Ma queste pure si perdono ordinariamente se non si ripetono,
e se l’assuefazione istantaneamente contratta, non si coltiva, mediante il
rinnuovamento non dell’impressione stessa, ma del suo effetto ec. Ancor qui
però vi sono delle differenze secondo la maggiore o minor facoltà di
assuefazione e di ritentiva, naturale e acquisita, che hanno i diversi
individui.
Degli
stessi tre soli scrittori letterati del trecento, un solo, cioè Dante, ebbe
intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che
si fa manifesto sì dal poema sacro, ch’egli considerava, non come trastullo, ma
come impresa di gran momento, e dov’egli trattò le materie più gravi della
filosia e teologia; sì dall’opera, tutta filosofica, teologica, e insomma
dottrinale e gravissima del Convito, simile agli antichi Dialoghi scientifici
ec. (vedilo); sì finalmente dalle opinioni ch’egli manifesta nel Volgare
Eloquio. Ond’è che Dante fu propriamente, com’è stato sempre considerato, e per
intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana. [1526]Ma
gli altri due, non iscrissero italiano che per passatempo, e tanto è lungi che
volessero applicarlo alla letteratura, che anzi non iscrivevano quelle materie
in quella lingua, se non perchè le credevano indegne della lingua letterata,
cioè latina, in cui scrivevano tutto ciò con cui miravano a farsi nome di
letterati, e ad accrescer la letteratura. Siccome giudicavano (ancor dopo
Dante, ed espressamente contro il parere e l’esempio suo, specialmente il
Petrarca) che la lingua italiana fosse indegna e incapace delle materie gravi e
della letteratura. Sicchè non pur non vollero applicarvela, ma non credettero
di potere, nè che veruno potesse mai farlo. Opinione che durò fin dopo la metà
del Cinquecento circa il poema eroico, del quale pochi anni dopo la morte dell’Ariosto,
e pochi prima che uscisse la Gerusalemme, si credeva in Italia che la lingua
italiana non fosse capace: onde il Caro prese a tradurre l’Eneide ec. (v. il 3.
tomo delle sue lett. se non fallo). Ed è notissima l’opinione che portava il
Petrarca del suo canzoniere: ed egli lo scrisse [1527]in italiano, come
anche il Boccaccio le sue novelle e romanzi, per divertimento delle brigate,
come ora si scriverebbe in un dialetto vernacolo, e per li cavalieri e dame, e
genti di mondo, che non si credevano capaci di letteratura. ec. ec. Ed è pur
noto come nel 500. si scrivessero poemi sudatissimi in latino, e storie ec.
(19.
Agos. 1821.)
Alla
p.1109. marg. fine. Fra’ quali lo spagnuolo soltar sciogliere, in vece
di solutar, da solutus di solvere. E si ha nel Glossar. solta cioè solutio, ed hanno pure i francesi soute, cioè solte,
invece di solute. Così sectari sta per secutari. E il
primitivo solvere s’è perduto nello spagnuolo. (v. però il Diz.) E noi
pure non diciamo assolto per assoluto? sciolto ec.? e voltare
appunto, da volutare come soltar da solutare, che
differisce per una sola lettera?
(19.
Agos. 1821.). V. p.1562. fine.
La
stessa ragione che inclina gli uomini e i viventi a credere assoluto il
relativo, li porta a credere effetto ed opera della natura, quello ch’è puro
effetto ed opera dell’assuefazione, e a creder facoltà o qualità congenite
quelle che sono meramente acquisite. Ma egli è ben vero che questa
considerazione estingue il bello e il grande: e quel sommo ingegno, o quella
somma virtù considerata come figlia delle circostanze e delle abitudini, non
della natura; perde tutto [1528]il nobile, tutto il mirabile, tutto il
sublime della nostra immaginazione. Le qualità più eroiche e più poetiche, lo
stesso sentimento, entusiasmo, genio, la stessa immaginazione diventa
impoetica, s’ella non si considera come dono della natura; e lo scrittor di
gusto, e massime il poeta deve ben guardarsi dal considerarla altrimenti, o dal
presentarla sotto altro aspetto. Virgilio diverrebbe nella nostra immaginazione
poco diverso da Mevio (qual egli era infatti naturalmente), Achille da Tersite;
Newton si riconoscerebbe superiore per solo caso al più povero fisico
peripatetico.
Come la
grazia sia relativa si riconosce anche in ciò. Un aspetto femminile negli
uomini è veramente sconveniente perch’è fuor dell’ordinario. Pur questa
sconvenienza alle donne bene spesso par grazia, agli uomini bruttezza; ed io ho
veduto de’ visi e delle forme femminili che agli uomini facevano nausea, far
gran fortuna e colpo nelle donne al solo primo aspetto, ed esser da loro
generalmente riputate bellissime. Così viceversa può dirsi del [1529]maschile
nelle donne. (V. la p.1522.) E tali altre infinite differenze si trovano ne’
due sessi, circa al senso e al giudizio della grazia, come del bello.
(20.
Agos. 1821.)
E notate
che, stante il gusto naturale che hanno le donne per la forza negli uomini, e
gli uomini per la debolezza nelle donne, parrebbe che il fatto dovesse andare
all’opposto di ciò che ho detto qui sopra. Ma oltre che i gusti naturali si
alterano sommamente, infinite sono le modificazioni, le facce, le differenze di
un medesimo gusto, e degli effetti suoi. ec.
(20.
Agos. 1821.)
Alla p.1513.
fine. Questo ch’io dico, che la bellezza umana, massime della fisonomia, è
inseparabile e deriva principalmente dalla significazione, che niente ha che
fare col bello, si può vedere ancora ne’ diversi atteggiamenti di una persona o
di un volto, più o meno animati ed espressivi, e significatori di cose più o
meno piacevoli, o viceversa; secondo le quali differenze, una stessa persona,
par bella e brutta, più e meno bella o brutta. [1530]Del resto un volto
bello e regolare significa sempre per se qualche cosa di piacevole, quantunque
falsamente. Quindi ogni volto regolare piace. Ma piace pochissimo, ed alle
volte appena si sente che sia bello, s’egli o per mancanza di anima, o di
coltura, o di arte nella persona, manca affatto d’ogni significazione estranea
alla sua significazione naturale, e se questa si riconosce evidentemente per
falsa. Onde par molto più bello un viso molto meno regolare, ma espressivo,
animato ec. che quello che ho detto. ec. ec. ec.
(20.
Agos. 1821.)
A quello
che ho detto altrove per iscusar gl’inconvenienti accidentali che occorrono nel
sistema della natura, aggiungete, che talvolta, anzi spessissimo, essi non sono
inconvenienti se non relativi, e la natura gli ha ben preveduti, ma lungi dal
prevenirgli, li ha per lo contrario inclusi nel suo grand’ordine, e disposti a’
suoi fini. La natura è madre benignissima del tutto, ed anche de’ particolari
generi e specie che in esso si contengono, ma non degl’individui. Questi
servono sovente a loro [1531]spese al bene del genere, della specie, o
del tutto, al quale serve pure talvolta con proprio danno la specie e il genere
stesso. È già notato che la morte serve alla vita, e che l’ordine naturale, è
un cerchio di distruzione, e riproduzione, e di cangiamenti regolari e costanti
quanto al tutto, ma non quanto alle parti, le quali accidentalmente servono
agli stessi fini ora in un modo ora in un altro. Quella quantità di uccelli che
muore nella campagna coperta di neve, per mancanza di alimenti, la natura non l’ignora,
ma ha i suoi fini in questa medesima distruzione, sebben ella non serva
immediatamente a nessuno. Per lo contrario la distruzione degli animali che
fanno gli uomini o altri animali alla caccia, serve immediatamente ai
cacciatori, ed è un inconveniente accidentale, e una disgrazia per quei poveri
animali; ma inconveniente relativo, e voluto dalla natura, che gli ha destinati
per cibo ec. ad altri viventi più forti.
(20.
Agos. 1821.)
Facciamo
conto che la scienza politica da Machiavello in poi abbia fatto 20 passi, [1532]10
passi per opera di Machiavello, e gli altri 10 distributivamente per opera
degli altri successivi scrittori. Chi fu uomo più grande? Machiavello o i suoi
successori? E pur l’ultimo di questi è molto più gran politico di Machiavello,
e la politica nelle sue opere ha una doppia estensione. Nessuno dunque
preferisce Machiavello a quest’ultimo, e le sue opere non si leggono oramai che
per profondità di studio; e se la scienza dopo lui avesse mutato faccia, come
spesso accade, in virtù per altro dell’impulso da lui datole, più che di
qualunque altra cagione; le opere di Machiavello non si leggerebbero più.
Figuriamoci lo stesso della fisica in ordine a Galileo. Ma siccome la fisica ha
realmente mutato faccia, però gli scritti di Galileo forse il più gran fisico e
matematico del mondo, si lasciano agli eruditi. Tanto è vana e caduca quella
gloria per cui gli uomini si affaticano, che non solo ella dipende dalla
fortuna, non solo si stende a pochissimi studiosi e consapevoli delle cose
antiche, non solo basta un piccolissimo caso ad impedirla o a sopprimerla, non
solo tocca bene spesso agl’immeritevoli ec. ec. ec. ec. ec. [1533]ma lo
stesso cercarla, lo stesso ottenerla, è cagione del perderla. Quegli uomini
straordinarii e sommi che danno colle loro opere un impulso allo spirito umano,
e cagionano un suo notabile progresso, restano dopo poco spazio inferiori nell’opinione
e nella realtà, a degl’ingegni molto minori, che profittando de’ suoi lumi,
conducono lo spirito umano molto più avanti di quello a cui egli non lo potè portare.
Così quelle stesse opere che gli procacciarono gloria, cagionano la di lui
dimenticanza; e il gran filosofo con quel medesimo con cui cerca ed ottien
rinomanza, travaglia a distruggerla. Le glorie letterarie per questa parte,
sono alquanto meno soggette a questo inconveniente. Dico per questa parte,
perchè le alterazioni dei gusti, e la somma istabilità del bello, che non ha
forma indipendente dall’opinione e dal costume ec. come il vero, producono bene
spesso il medesimo effetto.
(20.
Agos. 1821.)
Chi non
crederebbe che il significato francese della parola genio non fosse al
tutto [1534]moderno? Eppure nel seg. passo di Sidonio (Panegyr. ad
Anthem. v.190. seqq.) io non so in qual altro senso, che in questo o simile, si
possa intendere.
Qua Crispus
brevitate placet, quo pondere Varro,
Quo genio
Plautus, quo fulmine
[1]
Quintilianus,
Qua pompa
Tacitus numquam sine laude loquendus.
Se pur
non volesse dire piacevolezza, e una cosa simile a quella che esprime
talvolta l’italiano genio, e in questo senso pure non si troverebbe
presso gli antichi scrittori. V. però il Forcell. e il Ducange.
(20.
Agos. 1821.)
Le
parole irrevocabile, irremeabile e altre tali, produrranno sempre una
sensazione piacevole (se l’uomo non vi si avvezza troppo), perchè destano un’idea
senza limiti, e non possibile a concepirsi interamente. E però saranno sempre
poeticissime: e di queste tali parole sa far uso, e giovarsi con grandissimo
effetto il vero poeta.
(20.
Agos. 1821.)
Principi
insigni e famosi per la [1535]bontà, e per l’amore scambievole di lui
verso i popoli, e de’ popoli verso lui, non furono e non saranno mai fuorchè in
un sistema di tranquillo, sicuro, ma assoluto dispotismo. Nè un Giuseppe II. nè
un Enrico IV. nè un Marco Aurelio, nè altri tali non sarebbero stati in un
regno come quello di Falaride, e come altri antichi, quando il popolo cozzava
colla tirannide che soffriva; nè in una monarchia costituzionale, alla moderna,
quando il principe cozza col popolo che non può vincere. Le ragioni le vedrai
facilmente, e consistono nell’egoismo, che è la cagione tanto della clemenza,
quanto della crudeltà e della tirannide de’ principi, e determina i loro
caratteri a questa o a quella, secondo la diversità delle circostanze. Augusto
sarebbe forse stato un buono ed amato principe, se la sua tirannide fosse stata
tranquilla, e se il tempo e le circostanze le avessero permesso di esserlo. ec.
ec. ec.
(20.
Agos. 1821.)
A quello
che ho in molti luoghi detto e spiegato della inclinazione irresistibile che l’uomo
sociale contrae al partecipare altrui [1536]le proprie sensazioni ec.
gradevoli o no, massime se straordinarie, bisogna riferire la gran difficoltà
che giornalmente si prova a conservare il segreto, massime quanto meno l’uomo è
lontano dallo stato naturale, o quanto meno è assuefatto a comprimere i suoi
desiderii. Onde le donne e i fanciulli sono le persone meno capaci del segreto.
Ma anche l’uomo fatto, e d’animo colto e formato ec. prova spessissimo gran
difficoltà ad esser perfettamente segreto, sicchè nessun indizio gli scappi
dalla bocca di ciò che sa, e massime se la cosa è curiosa ec. quantunque mai
possa importare la segretezza. E se ciascheduno esaminerà bene la sua vita,
vedrà quante volte la lingua gli abbia nociuto, o nelle piccole o nelle grandi
cose, e bene spesso, malgrado ch’egli prevedesse il danno. Uomo perfettamente
segreto, non penso che si trovi, non solo per le minime circostanze che non si
avvertono, e che tradiscono il segreto; ma per la inclinazione ch’egli ha a
manifestarlo, inclinazione a cui egli, se non sempre, certo assai spesso fa
qualche maggiore o minor sacrifizio. E forse la maggior parte delle circostanze
che ho detto, derivano in [1537]ultima analisi da questa inclinazione.
(21.
Agosto 1821.)
Gli
odori sono quasi un’immagine de’ piaceri umani. Un odore assai grato lascia
sempre un certo desiderio forse maggiore che qualunqu’altra sensazione. Voglio
dire che l’odorato non resta mai soddisfatto neppur mediocremente: e bene
spesso ci accade di fiutar con forza, quasi per appagarci, e per render completo
il piacere senza potervi riuscire. Essi sono anche un’immagine delle speranze.
Quelle cose molto odorifere che son buone anche a mangiare, per lo più vincono
coll’odore il sapore, e questo non corrisponde mai all’aspettativa di quel
gusto, che dall’odore se n’era conceputa. E se voi osserverete vedrete che
odorando queste tali cose, vi viene quel desiderio che tante volte ci avviene
nella vita, d’immedesimarci in certo modo con quel piacere, il che ci spinge a
porcelo in bocca: e fattolo restiamo mal paghi. Nè solo nelle cose buone a
mangiare, ma anche negli altri odori ci sopravviene lo stesso desiderio; e [1538]fiutando
p.e. con gran diletto un’acqua odorifera, e non potendoci mai appagare di
quella sensazione, ci vien voglia di berla.
(21.
Agos. 1821.)
Alla
p.1453. Che la natura infatti abbia lasciato da fare all’uomo più che agli
altri animali, e ch’egli anche naturalmente sia più sviluppabile, e più
destinato a crescere moralmente, si fa chiaro in certo modo anche per l’incremento
fisico del suo corpo: giacchè pochi altri animali crescono proporzionatamente
tanto quanto cresce l’uomo da quel ch’egli è quando nasce; vale a dire, pochi
altri animali nascendo, sono proporzionatamente tanto più piccoli, di quando
sono adulti, quanto è l’uomo.
(21. Agos.
1821.)
Bellezza
e bruttezza relativa. Siccome la bellezza è rara, perciò andando in un nuovo
paese, tu ritrovi persone la più parte brutte. Or queste ti paiono assai più
brutte di quelle del tuo paese (benchè sia confinante), e a prima vista ti pare
che in [1539]quel paese regni una gran deformità. La ragione è che il
giudizio del bello e del brutto dipende dall’assuefazione; e i brutti del tuo
paese, non ti fanno gran senso, nè ti paiono molto brutti, perchè sei avvezzo a
vederli. Così pure ci accade riguardo a questo o quell’individuo in
particolare. Ma quello che accade a te in quel nuovo paese, accadrà pure a que’
paesani venendo nel tuo. Viaggiando però molto, si arriva presto a perdere
queste tali sensazioni, per effetto parimente dell’assuefazione.
(21.
Agos. 1821.)
Ho detto
qui sopra che il bello è raro, e il brutto ordinario. Come dunque l’idea del
bello deriva dall’assuefazione, e dall’idea che l’uomo si forma dell’ordinario,
il quale giudica conveniente? Deriva, perchè quello che gli uomini o le cose
hanno d’irregolare, non è comune. Tutti questi son brutti, ma quegli in un
modo, questi in un altro. L’irregolarità ha mille forme. La regolarità una
sola, o poche. E gli stessi brutti hanno sempre qualcosa di regolare, anzi
quasi [1540]tutto, bastando una sola e piccola irregolarità a produr la
bruttezza. Così dunque l’uomo si forma naturalmente l’idea del bello, quando
anche non avesse mai veduto altro che brutti, distinguendo senza pure
avvertirlo ciò che le loro forme hanno di comune, da ciò che hanno di
straordinario e quindi irregolare. E posto il caso che il tale non avesse
veduto alcuna persona senza un tale identico difetto, o che l’avesse veduto
nella maggior parte delle persone a lui note, quel difetto sarebbe per lui
virtù, ed entrerebbe nel suo bello ideale. Così accadrebbe nel paese de’
monocoli. E forse può qui aver luogo il caso di una giovane da me conosciuta,
che sino a 25 anni, credè sempre costantemente che nessuno vedesse dall’occhio
sinistro, perch’ella non ci vedeva, e niuno se n’era accorto. L’immagine
pertanto ch’ella si formava della bellezza umana, era di un uomo cieco da un
occhio, ed avrebbe stimato difetto il contrario.
(21.
Agos. 1821.)
Come
tutto sia assuefazione ne’ viventi, si può anche vedere negli effetti della [1541]lettura.
Un uomo diviene eloquente a forza di legger libri eloquenti; inventivo,
originale, pensatore, matematico, ragionatore, poeta, a forza ec. Sviluppate
questo pensiero, applicandovi l’esempio mio, e distinguendolo secondo i gradi
di adattabilità, e formabilità naturale o acquisita degl’individui. Quei
romanzieri la cui fecondità ec. d’invenzione ci fa stupire, hanno per lo più
letto gran quantità di romanzi, racconti ec. e quindi la loro immaginazione ha
acquistata una facoltà che qualunque ingegno, in parità di circostanze
esteriori e indipendenti dalla sua natura, sarebbe capace di acquistare, in
grado per lo meno somigliante.
(21.
Agos. 1821.)
Lo
stesso dico degli altri studi indipendenti dalla lettura. Ed è tanto vero che
le dette facoltà vengono dall’assuefazione, ch’elle si acquistano, e si perdono
coll’interruzione dell’esercizio, e tale che poco fa era dispostissimo a
ragionare, oggi non lo è più. E s’egli da’ ragionatori, passa agli scrittori d’immaginazione,
la sua mente, mutato abito, [1542]acquista una facoltà d’immaginare ec.
ec. ec. Così m’è accaduto mille volte. Bensì, com’è naturale, questi abiti si
possono (mediante sempre l’assuefazione) confermare in modo che anche
interrotto l’esercizio, non si perdano, benchè s’indeboliscano; o si possano
presto ripigliare ec. ec. ec. Questo effetto è generale in tutte le
assuefazioni.
(21.
Agos. 1821.)
Un altr’abito
bisogna ancora contrarre e massimamente nella fanciullezza. Quello cioè di
applicare le dette assuefazioni alla pratica, quello di metterle a frutto, e di
farle servire all’esecuzione di cose proprie. P.e. molti vi sono, che hanno
squisito giudizio, moltissima lettura, cognizione ec. Non manca loro altro che
il detto abito per essere insigni scrittori: ma stante questa mancanza, metteteli
a scrivere, essi non sanno far nulla. Essi non hanno l’abito, e quindi la
facoltà dell’applicazione, e dell’esecuzione propria ec. Perciò un uomo il
quale (volendo seguitare l’esempio di sopra) abbia letto molti romanzi, e sia d’ottimo
giudizio ec. ec. può benissimo non saperne nè scrivere nè concepire, perchè non
ha l’abito [1543]dell’applicazione, e del fissare la mente a tirar
profitto coll’opera propria da quelle assuefazioni; non ha l’esercizio dello
scrivere, nè del pensare a questo fine, nè del mirare a ciò nell’assuefarsi ec.
ec. ec. non ha l’abito dell’attendere e del riflettere alle minuzie, ch’è
necessario per assuefarsi a porre in opera le altre assuefazioni; non ha l’abito
della fatica ec. E perciò molti ancora, anzi i più, leggono anche moltissimo,
non solo senza contrarne abilità d’eseguire (ch’è insomma abilità d’imitazione),
ma neppur di pensare, e senza guadagnar nulla, nè contrarre quasi verun’abitudine,
cioè attitudine. V. p.1558.
Tutti
più o meno (massimamente le persone che hanno coltivato il loro intelletto, e
sviluppatene le qualità, e quelle che sono ammaestrate da molta esperienza ec.)
concepiscono in vita loro delle idee, delle riflessioni, delle immagini ec. o
nuove, o sotto un nuovo aspetto, o tali insomma che bene e convenientemente
espresse nella scrittura, potrebbero esser utili o piacevoli, e separar quello
scrittore, se non altro, dal numero de’ copisti. Ma perchè gl’ingegni (massime
in Italia) non hanno l’abito di fissar fra se stessi, circoscrivere, e chiarificare
le loro idee, perciò queste restano per lo più nella loro mente in uno stato
incapace di esser consegnate e adoperate nella scrittura; e i più, quando si
mettono a scrivere, non trovando niente del loro che faccia al caso, si
contentano di copiare, o compilare, o travestire l’altrui; e neppur si
ricordano, nè credono, nè [1544]s’immaginano, nè pensano in verun modo a
quelle idee proprie che pur hanno, e di cui potrebbero far sì buon uso. Mancano
pure dell’abito di saper convenientemente esprimere idee nuove, o in nuova
maniera, cioè di applicare per la prima volta la parola e l’espressione
conveniente ad un’idea, di fabbricarle una veste adattata alla scrittura; e
perciò, quando anche le concepiscano chiaramente, le lasciano da banda, non
sapendo darle giorno, e disperando, anzi neppur desiderando di potere, e si
rivolgono alle idee altrui che hanno già le loro vesti belle e fatte. Che se
essi talvolta si lasciano portare a volere esprimere le dette idee proprie, per
la mancanza di abilità acquistata coll’esercizio, lo fanno miserabilmente.
Questo esercizio è tanto necessario, che io per l’una parte loderò moltissimo,
per l’altra piglierò sempre buonissima speranza di un fanciullo o di un
giovane, il quale ponendosi a scrivere e comporre, vada sempre dietro alle idee
proprie, e voglia a ogni costo esprimerle, siano pur frivole com’è naturale nei
principii della riflessione, e malamente espresse, com’è naturale ne’ principii
dello scrivere e dell’applicare [1545]i segni ai pensieri. A me pare ch’io
fossi uno di questi.
(22
Agos. 1821.)
L’uomo
senza la speranza non può assolutamente vivere, come senza amor proprio. La
disperazione medesima contiene la speranza, non solo perchè resta sempre nel
fondo dell’anima una speranza, un’opinione direttamente o quasi direttamente,
ovvero obbliquamente contraria a quella ch’è l’oggetto della disperazione; ma
perchè questa medesima nasce ed è mantenuta dalla speranza o di soffrir meno
col non isperare nè desiderare più nulla; e forse anche con questo mezzo, di
goder qualche cosa; o di esser più libero e sciolto e padrone di se, e disposto
ad agire a suo talento, non avendo più nulla da perdere, più sicuro, anzi
totalmente (se è possibile e v. la p.1477.) sicuro in mezzo a qualunque futuro
caso della vita ec.; o di qualche altro vantaggio simile; o finalmente, se la
disperazione è estrema ed intera cioè su tutta la vita, di vendicarsi
della fortuna e di se stesso, di goder della stessa disperazione, della stessa
agitazione, vita interiore, sentimenti gagliardi ch’ella suscita ec. Il piacere
della disperazione è ben conosciuto, e quando si rinunzi alla speranza e al
desiderio di tutti gli altri, non si lascia mai di sperare [1546]e
desiderar questo. Insomma la disperazione medesima non sussisterebbe senza la
speranza, e l’uomo non dispererebbe se non isperasse. Infatti la disperazione
più debole e meno energica è quella dell’uomo vecchio, lungamente disgraziato,
sperimentato ec. che spera veramente meno. La più forte, intera, sensibile, e
formidabile, è quella del giovane ardente e inesperto, ch’è pieno di speranze,
e che gode perciò sommamente benchè barbaramente della stessa disperazione ec.
(22.
Agos. 1821.)
Quelli
che meno sperano, meno godono della loro disperazione, e meno anche disperano,
e conservano più facilmente una speranza benchè languida, pur distinta e
visibile in mezzo alla disperazione. Tale è il caso degli uomini lungamente
sventurati, e soliti ed assuefatti a soffrire e a disperare. Viceversa dico
degli altri. La disperazione poi dell’uomo ordinariamente felice, è
spaventevole.
(22.
Agos. 1821.)
Siccome
non v’è infelicità che non possa crescere (p.1477.), così non v’è uomo tanto
perfettamente disperato che sopraggiungendolo [1547]una nuova,
impreveduta e grande sciaura non provi nuovo dolore. Anzi bene spesso quando
anche sia preveduta, quando anche sia quella medesima per cui si disperava.
Dunque la speranza gli restava ancora. E nessuno è mai tanto disperato che, se
bene si dia a credere di non esser più suscettibile di maggior dolore, e di
star sicuro nella sua piena disperazione, non sia realmente soggetto a sentire
l’accrescimento del male. Non v’è infermo così ragionevole e capace di conoscer
da se di avere necessariamente a morir del suo male (come sarebbe un medico
ec.), che al ricever l’avviso di dover morire non si turbi fuor di modo. Dunque
sperava ancora di non morire. Questa osservazione è del Buffon. E come non v’è
tanto gran male che non possa esser maggiore, così non v’è disperazione umana
che non possa crescere. Dunqu’ella non è mai perfetta per grande ch’ella sia,
dunque non esclude mai pienamente la speranza.
(22.
Agos. 1821)
Osservate
quell’uomo disperatissimo di tutta quanta la vita, disingannatissimo d’ogni
illusione, e sul punto di uccidersi. Che cosa credete voi ch’egli pensi? pensa
che la sua morte sarà o compianta, o ammirata, o desterà spavento, o farà
conoscere il suo coraggio, a’ parenti, agli amici, a’ conoscenti, a’ cittadini;
che si discorrerà di lui, se non altro per qualche istante con un sentimento
straordinario; che le menti si esalteranno almeno di un grado sul di lui [1548]conto;
che la sua morte farà detestare i suoi nemici, l’amante infedele ec. o li
deluderà ec. ec. Credete voi ch’egli non tema? egli teme, (sia pur
leggerissimamente) che queste speranze non abbiano effetto. Io son certissimo
che nessun uomo è morto in mezzo a qualche società senza queste speranze e
questi timori, più o meno sensibili; e dico morto, non solo volontariamente, ma
in qualche modo. E s’egli è mai vissuto nella società ec. morendo anche nel deserto,
e quivi anche di sua mano, spera (sia pur lontanissimamente) che la sua morte
quando che sia verrà conosciuta ec. V. p.1551. Tanto è lungi dal vero che la
speranza o il desiderio possano mai abbandonare un essere che non esiste se non
per amarsi, e proccurare il suo bene, e se non quanto si ama.
(22.
Agos. 1821.)
Alla
p.1449. Vero è per altro che nè l’immaginazione de’ vecchi sarà mai così
feconda nè forte ec. come quella de’ giovani, nè quella de’ moderni, come
quella degli antichi, nè la comandata come la spontanea. E quindi la poesia de’
moderni cederà sempre all’antica quanto all’immaginazione. E si può ben
comandare a questa, e renderla a viva forza anche più feconda e più gagliarda
dell’antica, ma non si riuscirà mai in questo modo a dare a’ suoi parti quella
bellezza, quella grazia, quella vita che [1549]non ponno avere se non le
sue produzioni spontanee. Saranno anche più energici, e non per tanto meno vivi,
e men belli, anzi tanto meno quanto più energici, derivando quest’energia dalla
forzatura, e dalla tortura a cui si mette la fantasia, per cavarne cose che
facciano grand’effetto, e spirino originalità ec. Tali sono ordinariamente i
parti delle fantasie settentrionali, parti la cui straordinaria forza non è
vitale, ma come quella che si acquista coll’acqua vite, e benchè più forti
assai delle invenzioni greche, sono ben lungi dall’averla vita, e la sana
complessione di queste.
Bisogna
però convenire che l’uomo moderno, così tosto com’è pienamente disingannato,
non solo può meglio comandare all’immaginazione che al sentimento, il che
avviene in ogni caso, ma anche è meglio atto a immaginare che a sentire. Quando
gli uomini sono ben conosciuti, non è più possibile sentir niente per loro;
ogni moto del cuore è languido, e oltracciò s’estingue appena nato. L’affetto è
incompatibile colla conoscenza della malvagità dell’uomo, e della nullità [1550]delle
cose umane. L’uomo disingannato non ha più cuore, perchè i sentimenti ancorchè
destati da tutt’altro, hanno sempre relazione o vicina o lontana co’ nostri
simili. E come può l’uomo riscaldarsi per cose di cui conosce o la perversità o
la total vanità? Sparito dagli occhi umani quel mondo umano, dove solo si
poteva esercitare il suo cuore; sparita l’idea della virtù, dell’eroismo ec.
ec. ec. il sentimento è distrutto. L’odio o la noia non sono affetti fecondi;
poca eloquenza somministrano, e poco o niente poetica. Ma la natura, e le cose
inanimate sono sempre le stesse. Non parlano all’uomo come prima: la scienza e
l’esperienza coprono la loro voce: ma pur nella solitudine, in mezzo alle
delizie della campagna, l’uomo stanco del mondo, dopo un certo tempo, può
tornare in relazione con loro benchè assai meno stretta e costante e sicura;
può tornare in qualche modo fanciullo, e rientrare in amicizia con esseri che
non l’hanno offeso, che non hanno altra colpa se non di essere stati esaminati,
e sviscerati troppo minutamente, e che anche secondo la scienza, hanno pur
delle intenzioni e de’ fini benefici verso lui. Ecco un certo [1551]risorgimento
dell’immaginazione, che nasce dal dimenticare che l’uomo fa le piccolezze della
natura, conosciute da lui colla scienza; laddove le piccolezze, e le malvagità
degli uomini, cioè de’ suoi simili, non è quasi possibile che le dimentichi.
Egli stesso assai mutato da quel di prima, e conosciuto da lui assai più
intimamente di prima, egli stesso da cui non si può nè allontanare nè separare,
servirebbe a richiamargli l’idea della miseria, della vanità, della tristizia
umana. In questo stato l’uomo moderno è più atto ad imitare Omero che Virgilio.
Alla
p.1548. marg. Quindi la cura che i suicidi soglion prendere di lasciar qualche
notizia, qualche cenno della loro morte, e del modo di essa; com’ella fu
veramente volontaria, non derivò da pazzia, nè da malattia, nè da violenza
altrui. Molti si stendono anche a descriverne tutte le cagioni, e le
circostanze e spendono molto tempo a trattenersi, ad informare, a cattivarsi
insomma quel mondo, che nel medesimo punto sono per lasciare, abbominandolo,
disprezzandolo, e disperando di nulla ottenerne. [1552]Che se altri
tralasciano tutto ciò, non lo fanno che per riscuotere maggiore ammirazione o
dagli altri, o certo da se stessi.
(23.
Agosto 1821.)
Certe
voci false negli uomini piacciono moltissimo alle donne. Così forse anche
viceversa, sebbene noi siamo meglio informati e avvertiti intorno a ciò che
accade alle donne rispetto a noi, che a noi rispetto alle donne. Del resto il
detto effetto appartiene alla grazia derivante dallo straordinario e dallo
stesso difettoso.
(23.
Agos. 1821.)
Montesquieu
Essai sur le goût ha alcuni pensieri sulla grazia, analoghi a quelli ne’
quali ho spiegato com’ella derivi dall’irregolare che benchè sconveniente, non
arriva a distruggere la convenienza.
(23.
Agosto. 1828.)
L’indebolimento
della memoria, non è scancellamento d’immagini o d’impressioni ec. ma
inabilitamento degli organi, ad eseguire le solite operazioni a cui sono
assuefatti, tanto generali che particolari, e a contrarre [1553]nuove
assuefazioni particolari, cioè nuove reminiscenze.
(23.
Agos. 1821.)
Si
vedono persone di montagna venute nelle grandi città, contrarre brevemente le
maniere civili e graziose, ed altre nate in paesi assai meno rozzi, viver
lungamente nelle grandi città, e tornare in patria colle stesse maniere di
prima. Ecco le differenze de’ talenti; maggiore o minor facilità d’assuefarsi e
dissuefarsi. Io spererò sempre bene di quel fanciullo, che dimostri nelle
minime cose questa facilità, che sia singolarmente portato all’imitazione, che
facilmente e presto contragga le maniere, la pronunzia ec. ec. e gli stessi
difetti di coloro con cui vive, e presto se ne divezzi, e le perda secondo la
novità delle circostanze ec. ec. che trasportato in un nuovo paese o in un
nuovo circolo, ne pigli subito le virtù o i vizi. Dico finattanto che nel
fanciullo non si può pretendere il discernimento: il quale deriva da una lunga
e varia serie di assuefazioni.
(23.
Agosto. 1821.)
Tutti
dicono che l’uomo è un animale imitativo, ch’egli è singolarmente portato [1554]all’imitazione,
influito dall’esempio ec. Che altro è questo se non dire ch’egli dipende in
tutto dall’assuefazione; che non apprende se non perchè si avvezza, e non ha
fra tutti gli animali somma facoltà di apprendere, se non perchè ha fra tutti somma
facoltà di avvezzarsi, come somma inclinazione e disposizione a imitare; che
quasi tutte le sue facoltà e qualità sono acquisite ec. ec.?
(23.
Agos. 1821.)
Non
solo, come ho spiegato altrove si fa male quello che si fa con troppa cura, ma
se la cura è veramente estrema, non si può assolutamente fare, e per giungere a
fare bisogna rimettere alquanto della cura, e della intenzione di farlo.
In
questo presente stato di cose, non abbiamo gran mali, è vero, ma nessun bene; e
questa mancanza è un male grandissimo, continuo, intollerabile, che rende
penosa tutta quanta la vita, laddove i mali parziali, ne affliggono solamente
una parte. L’amor proprio, e quindi il desiderio ardentissimo della felicità,
perpetuo ed essenzial compagno della vita [1555]umana, se non è calmato
da verun piacere vivo, affligge la nostra esistenza crudelmente, quando anche
non v’abbiano altri mali. E i mali son meno dannosi alla felicità che la noia
ec. anzi talvolta utili alla stessa felicità. L’indifferenza non è lo stato
dell’uomo; è contrario dirittamente alla sua natura, e quindi alla sua
felicità. V. la mia teoria del piacere, applicandola a queste osservazioni, che
dimostrano la superiorità del mondo antico sul moderno, in ordine alla
felicità, come pure dell’età fanciullesca o giovanile sulla matura.
(24.
Agos. 1821.)
Consideriamo
la natura. Qual è quell’età che la natura ha ordinato nell’uomo alla maggior
felicità di cui egli è capace? Forse la vecchiezza? cioè quando le facoltà dell’uomo
decadono visibilmente; quando egli si appassisce, indebolisce, deperisce?
Questa sarebbe una contraddizione, che la felicità, cioè la perfezione dell’essere,
dovesse naturalmente trovarsi nel tempo della decadenza e quasi corruzione di
detto essere. Dunque la gioventù, cioè il fior dell’età, quando le facoltà dell’uomo
sono in pieno vigore ec. ec. [1556]Quella è l’epoca della perfezione e
quindi della possibile felicità sì dell’uomo che delle altre cose. Ora la
gioventù è l’evidente immagine del tempo antico, la vecchiezza del moderno. Il
giovane e l’antico presentano grandi mali, congiunti a grandi beni, passioni
vive, attività, entusiasmo, follie non poche, movimento, vita d’ogni sorta. Se
dunque la gioventù è visibilmente l’età destinata dalla natura alla maggior
felicità, l’Žkm¯ della vita, e per conseguenza della felicità ec. ec. se
il nostro intimo senso ce ne convince (che nessun vecchio non desidera di esser
giovane, e nessun giovane vorrebbe esser vecchio); se la considerazione del
sistema e delle armonie della natura ce lo dimostra a primissima vista; dunque
l’antico tempo era più felice del moderno; dunque che cosa è la sognata
perfettibilità dell’uomo? dunque ec. ec. Quest’osservazione si può stendere a
larghissime conseguenze.
(24.
Agos. 1821.)
Alla
p.1551. Tanto la facoltà d’immaginare quanto di sentire sono abiti. Or quell’abito
si racquista meglio di questo.
[1557]L’immaginazione, eccetto ne’
fanciulli, non ha, e non abbisogna di fondamento nella persuasione. Omero non
credeva certo a quello ch’egli immaginava. La scienza può dunque sommamente
indebolire l’immaginazione; pur non è incompatibile seco lei. Per l’opposto, il
sentimento se non è fondato sulla persuasione è nullo. Quell’uomo che non crede
più alla virtù; che sa com’ella è dannosa, e del resto non si trova in nessuno;
che ha perduto l’idea della grandezza degli animi e delle cose e delle azioni,
vedendo come tutte queste e tutti quelli son piccoli; che ha conosciuto come l’entusiasmo,
l’eroismo, l’amore non hanno verun soggetto reale; che gli uomini e le cose
sono indegnissime di destare in lui questi affetti ec. ec. un tal uomo come può
far uso del suo cuore, come può provar più verun sentimento forte e durevole;
egli che sotto le più belle apparenze, discopre sempre chiaramente o fortemente
sospetta, l’inganno, l’astuzia, la malvagità, i secondi fini, la vanità, la
viltà, la nullità, la freddezza?
(24.
Agos. 1821.)
[1558]Alla p.1543. marg. La quale
attitudine è sì dipendente dall’abito e dall’esercizio ec. che intermettendolo,
i più grandi ingegni illanguidiscono, o perdono talvolta affatto la detta
attitudine, sia particolarmente, cioè riguardo a un dato genere di scrittura o
di lavoro, sia generalmente, cioè riguardo a tutti i generi. Benchè sia loro
meno difficile il ricuperarlo, che altrui l’acquistarlo, com’è naturale, per
effetto dell’abito passato.
(24.
Agos. 1821.)
Discorre
il Monti (Proposta ec. vol.1. p.227.) della separazione da farsi della
natura bruta dalla coltivata. Vedilo. Egli antepone, come si può ben
credere, questa a quella. È verissimo. L’arte emenda, abbellisce, ec. ec. non
poche volte la natura. La natura non tocca dall’arte, spessissimo è
intollerabile, dannosa, schifosa (come dice il Monti). Ma come tutto
ciò? forse assolutamente? non già; ma relativamente all’uomo. Or tutto ciò che
vuol dire? che la natura ha errato? ch’ell’è imperfetta nelle sue opere? Così
la pensano coloro a’ quali par molto più assurdo che l’uomo non faccia tutto
bene, di quello che la natura abbia [1559]fatto ogni cosa male, e
sbagliato a ogni tratto, e vada sempre mendicando l’opera e il soccorso delle
sue proprie creature. Ma io dico. Quelle cose che senza un’infinita arte dell’uomo,
non gli giovano, non gli piacciono, o gli nocciono, o fanno nausea ec. non
erano e non son fatte per l’uomo. Il mondo non è tutto fatto per l’uomo. Quelle
cose che eran fatte per lui, o dovevano aver relazione con lui, ed avercela in
quel tal modo, la natura le ha ordinate con tutta la possibile perfezione al
suo bene. Così ha fatto per tutte le altre cose, il cui bene non sempre si
accorda con quello dell’uomo.
Ma
poichè l’uomo, mediante ciò che si chiama perfezionamento, e io chiamo
corruzione, s’è posto in relazione con tutto il mondo, s’è proccurata un’infinità
di bisogni ec. ec. ha dovuto con infinite difficoltà ridurre tutte le cose a
uno stato idoneo al suo servizio; e le stesse cose che la natura avea destinate
al suo uso, non essendo più buone a servirlo nel suo nuovo stato, ha dovuto,
parte abbandonarle, parte ridurle a una condizione diversissima ed anche
opposta alla naturale. [1560]Che vuol dir questo? non che la natura è
imperfetta, ma che l’uomo non è qual doveva. Se l’arte è necessaria alla natura
rispetto all’uomo, e non un’arte, dirò così, naturale, come n’adoprano
proporzionatamente anche i bruti, ma un’arte difficilissima, infinita,
complicatissima, lontanissima dalla natura; ciò non vuol dire che la natura per
se stessa abbisogna dell’arte, ma che l’uomo è ridotto in tale stato che non
gli basta più la natura di gran lunga; e ciò prova che questo stato non gli conviene.
L’uomo alterandosi, ha trovato la natura imperfetta per lui. Ciò vuol dire ch’egli
non s’è dunque perfezionato, ma corrotto; ciò vuol dire che egli non
corrisponde più al sistema delle cose, e per conseguenza ch’egli è in uno stato
vizioso. L’imperfezione dell’uomo, che non ha niente d’assurdo, perchè vien da
lui, noi l’ascriviamo alla natura, il che è assurdissimo in sì perfetta
maestra, e poi in quella che è la sola norma e ragione del perchè una cosa sia
perfetta o no; giacchè fuor di lei, e della sua libera disposizione, non esiste
altra ragione di perfezione o [1561]imperfezione. Dopo che l’uomo s’è
cambiato, ha dovuto cambiar la natura. Ciò prova ch’egli non doveva cambiarsi.
Se la sua nuova condizione fosse stata voluta e ordinata dalla natura, ella
avrebbe disposte e ordinate le altre cose in modo che corrispondessero e
servissero perfettamente a questa nuova condizione. E non dopo il cambiamento,
ma prima di esso, l’uomo si sarebbe trovato in opposizione colla natura, (come
oggi si trova tutto giorno) se il cambiamento fosse stato primordialmente ed
essenzialmente ordinato dalla natura, cioè dalla ragion delle cose. Tutti gli
esseri nel loro stato relativo di perfezione, trovano la natura perfettamente
corrispondente ai loro fini, al loro bene, ec. e si trovano in perfetta armonia
con tutte le cose che hanno relazione naturale ed essenziale (non accidentale)
con loro. Solamente l’uomo in quello stato ch’egli chiama di perfezione, trova
la natura renitente, ripugnante, mal disposta a’ suoi vantaggi, a’ suoi
piaceri, a’ suoi desiderii, a’ suoi fini, e gli conviene rifabbricarla. Quanto
più egli s’avanza [1562]verso la sognata perfezione del suo essere tanto
meno si trova in armonia colle cose quali elle sono, e gli conviene,
raddoppiando proporzionatamente l’arte, e vincendo sempre maggiori difficoltà,
cambiar le cose, e farle essere diversamente. Quanto più l’uomo è perfetto,
cioè in armonia col sistema delle cose esistenti, e di se stesso, tanto più gli
è difficile e faticoso il vivere, e l’esser felice. Che strana assurdità
sarebbe questa nella natura? che strana contraddizione con tutte le altre anche
menome parti del suo sistema?
Se
dunque l’arte è necessaria oggi all’uomo, e se la natura bruta gli è
incompatibile, ciò vuol dire ch’egli non è qual dovrebbe, e che il suo vero
stato di perfezione è il primitivo, come quello di tutte le altre cose. Lungi
pertanto dall’esser questo un argomento contro il mio sistema, combatte
fortemente per lui.
Alla
p.1527. Similmente gli spagnuoli hanno perduto il latino furari, ma
hanno un suo continuativo ignoto nella buona latinità, cioè hurtar (che
anticamente dicevasi furtar) [1563]contratto da furatare,
o furitare. Furtare si trova in alcune scritture latine-barbare
Portoghesi presso il Du-Cange.
(25.
Agos. 1821.). V. p.2244. fine.
La
virtù, l’eroismo, la grandezza d’animo non può trovarsi in grado eminente,
splendido e capace di giovare al pubblico, se non che in uno stato popolare, o
dove la nazione è partecipe del potere. Ecco com’io la discorro. Tutto al mondo
è amor proprio. Non è mai nè forte, nè grande, nè costante, nè ordinaria in un
popolo la virtù, s’ella non giova per se medesima a colui che la pratica. Ora i
principali vantaggi che l’uomo può desiderare e ottenere, si ottengon mediante
i potenti, cioè quelli che hanno in mano il bene e il male, le sostanze, gli
onori, e tutto ciò che spetta alla nazione. Quindi il piacere, il cattivarsi in
qualunque modo, o da vicino o da lontano, i potenti, è lo scopo più o meno degl’individui
di ciascuna nazione generalmente parlando. Ed è cosa già mille volte osservata
che i potenti imprimono il loro carattere, le loro inclinazioni ec. alle
nazioni loro soggette. [1564]Perchè dunque la virtù, l’eroismo, la
magnanimità ec. siano praticate generalmente e in grado considerabile da una
nazione, bisognando che questo le sia utile, e l’utilità non derivando
principalmente che dal potere, bisogna che tutto ciò sia amato ec. da coloro
che hanno in mano il potere, e sia quindi un mezzo di far fortuna presso loro,
che è quanto dire far fortuna nel mondo.
Ora l’individuo,
massime l’individuo potente, non è mai virtuoso. Parlo sì del principe, come de’
suoi ministri, i quali in un governo dispotico, necessariamente son despoti,
gravitano sopra i loro subalterni, e questi sopra i loro ec. essendo questa una
conseguenza universale e immancabile del governo dispotico di un solo; cioè che
il governo sia composto di tanti despoti, non potendo il dispotismo essere esercitato
dal solo monarca; e che l’autorità di ciascuno de’ suoi ministri, mediati o
immediati, sia temuta con una specie di spavento, adorata ec. da’ subalterni
ec. (come si può vedere nel governo passato di Spagna) ed influisca quindi [1565]sommamente
sulla nazione, e determini il suo carattere, essendo dispotica (benchè
dipendente) padrona del suo bene e del suo male.
L’individuo,
dico, o gl’individui potenti, (siccome gli altri) non sono nè possono essere
virtuosi, se non a caso, cioè o quando la virtù giovi loro, (cosa rara, perchè
a chi ha in mano le cose altrui giova il servirsene, e non l’astenersene ec.
ec. ec.) o quando una straordinaria qualità di carattere, di educazione ec. ve
li porti, del che vedete quanto sieno frequenti gli esempi nelle storie,
massimamente moderne.
L’individuo
non è virtuoso, la moltitudine sì, e sempre, per le ragioni e nel senso che ho
sviluppato altrove. Quindi in uno stato dove il potere o parte di esso sta in
mano della nazione, la virtù ec. giova, perchè la nazione (che tiene il potere)
l’ama; e perchè giova, perciò è praticata più o meno, secondo le circostanze,
ma sempre assai più e più generalmente che nello stato dispotico. La virtù è
utile al pubblico necessariamente. Dunque il pubblico è necessariamente
virtuoso o inclinato alla virtù, perchè necessariamente ama se stesso e quindi
la propria utilità. Ma la virtù non è sempre utile all’individuo. Dunque l’individuo
non è sempre virtuoso, nè necessariamente. Oltre ch’è ben più facile e
ordinario ingannarsi un individuo sulle sue vere utilità, che non la
moltitudine. Ma in ogni modo l’individuo cerca il suo proprio bene, il pubblico
cerca il suo (vero o falso, con mezzi acconci o sconci): questa è virtù sempre
e in qualunque caso, quello egoismo e vizio. Parlo principalmente delle virtù
pubbliche, cioè di quelle virtù grandi, [1566]i cui effetti, o i cui
esempi si stendono largamente, in qualunque modo avvenga. Ma non intendo di
escludere neppure le virtù private e domestiche, alle quali quanto sia
favorevole (massime alle virtù forti e generose) lo stato popolare, e
sfavorevole il dispotico, lo dicano per me le storie antiche e moderne; lo dica
fra le altre la storia della Francia monarchica, e della Francia repubblicana,
lo dica l’Inghilterra ec.
Quando l’utile
non è se non ciò che piace agl’individui, e questi non sono, e quasi non
possono esser virtuosi, o lo sono momentaneamente, o questo sì e quello no, e
cento altri no; quando l’utilità insomma delle virtù dipende dal carattere,
dalle inclinazioni, dalle voglie, dai disegni degl’individui, e per conseguenza
la virtù, quando anche giovi talvolta, non giova costantemente ed
essenzialmente, ma per circostanze accidentali, non è possibile che quella tal
nazione sia abitualmente e generalmente virtuosa, e che gl’individui di lei si
allevino in quella virtù che da un momento all’altro può divenir loro non solo
inutile, ma anche dannosissima. La virtù allora [1567]non sussistendo
che nelle apparenze, quando queste bisognino, non è virtù, ma calcolo,
finzione, e quindi vizio. E bisogna ch’ella sia sempre finta nei sudditi, perch’essi,
quando anche giovi oggi, non possono sapere se gioverà domani, dipendendo la
sua utilità non dalla sua natura, nè da circostanze essenziali, e stabilmente
fondate nella loro ragione, ma dall’essere amata o non amata da individui, che
per lo più non l’amano, e che se non altro, oggi possono amarla e domani no,
amarla questo, e odiarla quello, o il suo successore. ec. ec.
Oltracciò
quelle qualità che si esercitano per piacere ad una società molto estesa, come
dire alla nazione, sono quasi inseparabili (quando anche fossero finte, nel
qual caso non giovano costantemente) da una certa grandezza d’animo; e
contribuisce questa circostanza a render gli uomini virtuosi ec. e veramente
virtuosi. Anche lo stesso far corte a una nazione per ottenerne il favore,
ingrandisce l’animo, ed è compatibile colla virtù. Il soggettarsi alla nazione
è piuttosto grandezza che bassezza. Dove che il far corte all’individuo per
cattivarsene la grazia, il soggettarsi ad un uomo uguale a voi, e nel
quale non vedete nessuna buona e sublime ragione di predominio, nessuna [1568]bella
illusione che nobiliti il vostro abbassamento (come accade riguardo alla
nazione, la cui moltitudine pone quasi lo spettatore in una certa distanza, e
la distanza dà pregio alle cose; alla nazione dove sempre si suppongono grandi
e buone qualità in massa); tutto questo, dico, impiccolisce, avvilisce,
abbassa, umilia l’animo, e gli fa ben sentire il suo degradamento, laonde è
incompatibile colla virtù; perchè chi ha forza di far questo, ha perduto la
stima di se stesso, fonte, guardia, e nutrice della virtù; e chi ha perduto la
stima di se, e consentito a perderla, e non se ne pente, nè cerca ricuperarla
ec. o chi non l’ha mai posseduta nè curata, non può assolutamente essere
virtuoso.
Quello
che ho detto altrove del sozzo e del polito, si può parimente dire dello
schifoso ec. ec. E si può aggiungere che non solo nelle diverse specie d’animali,
ma in una stessa specie, in uno stesso individuo, massimamente umano, l’idea
del sozzo o del netto varia in maniera, secondo le assuefazioni ec. che non si
può ridurre a veruna forma concreta universale.
La
massima conformabilità dell’uomo rispetto a tutte le altre creature note, fa
che si [1569]trovino assai maggiori e più numerose differenze fra gl’individui
umani, e fra le successive condizioni di uno stesso individuo, che in qualunque
altra specie di esseri.
(27.
Agosto 1821.)
Le
maravigliose facoltà che acquistano i sordi, i ciechi ec. o nati o divenuti,
sono un’altra gran prova del quanto le nostre facoltà e quelle de’ viventi
derivino dalle circostanze e dall’assuefazione; e del quanto sia sviluppabile,
modificabile, duttile, pieghevole, conformabile la natura umana.
(27.
Agosto 1821)
Ma ben
altro è la conformabilità, che la perfettibilità. Cosa generalmente non intesa
dai filosofi, i quali credono di aver provato che l’uomo è perfettibile, quando
hanno provato ch’è conformabile. Il che anzi dimostrerebbe l’opposto, cioè che
le varie qualità e facoltà non primitive che si sviluppano nell’uomo mediante
la coltura, ec. ec. non sono ordinate dalla natura, ma accidentali, e figlie
delle circostanze, come le malattie che modificano viziosamente i nostri organi
ec. ec.
(27.
Agosto 1821.)
[1570]La nostra civiltà, che noi
chiamiamo perfezione essenzialmente dovuta all’uomo, è manifestamente
accidentale, sì nel modo con cui s’è conseguita, sì nella sua qualità. Quanto
al modo, l’ho già mostrato altrove. Quanto alla qualità, essendo l’uomo
diversissimamente conformabile, e potendo modificarsi in milioni di guise dopo
che s’è allontanato dalla condizione primitiva, egli non è tale qual è oggi, se
non a caso, e in diverso caso, poteva esser diversissimo. E questo genere di
pretesa perfezione a cui siam giunti o vicini, è una delle diecimila
diversissime condizioni a cui potevamo ridurci, e che avremmo pur chiamate
perfezioni. Consideriamo le storie, e le fonti del nostro stato presente, e
vediamo quale infinita combinazione di cause e circostanze differentissime ci
abbia voluto a divenir quali siamo. La mancanza delle quali cause o
combinazioni ec. in altre parti del globo, fa che gli uomini o restino senza
civiltà, e poco lontani dallo stato primitivo, o siano civili (cioè perfetti)
in diversissimo modo, come i Chinesi. Dunque è manifesto che la nostra civiltà,
che si crede essenzialmente appartenerci, non è stata [1571]opera della
natura, non conseguenza necessaria e primordialmente preveduta delle
disposizioni da lei prese circa la specie umana (e tale dovrebb’essere, s’ella
fosse perfezione), ma del caso. In maniera che, per così dire, neppur la natura
formando l’uomo, poteva indovinare, non dico ciò che fosse per divenire, ma
come potesse e dovesse divenir perfetto, e in che cosa consistesse la sua
perfezione, ch’è pur lo scopo e l’integrità di quell’esistenza ch’ella stessa
gli dava e formava. Non sapeva dunque che cosa ella si formasse, giacchè gli
esseri e le cose tutte non vanno considerate, nè si può giudicar di loro, e
della loro qualità ec. se non se nello stato di perfezione. Or com’è possibile
che la natura la quale ha fatto ogni cosa perfetta, (nè poteva altrimenti) non
abbia nè assegnato verun genere di perfezione alla sua principal creatura, nè
disposto le cose in modo che l’uomo dovesse necessariamente conseguire questa
perfezione, cioè la pienezza e il vero modo del suo essere? e che gli abbia
detto; la perfezione, cioè l’esistenza intera, l’esistenza che ti conviene, il
modo in cui devi essere, la forma e la natura tua propria, te la darà [1572]il
caso, come, e quando, e se vorrà, e quanto vorrà, cioè in quel grado e in quei
luoghi che vorrà, e quale vorrà?
(27
Agos. 1821.)
Che
immensa opera è la civilizzazione! quanto difficile; quanto ne sono lontani da
che mondo è mondo la maggior parte degli uomini! che risultato d’infinite
combinazioni accidentali! La perfezione essenziale alle cose, doveva essere
assegnata dalla natura in questo modo alla principal cosa del nostro sistema,
cioè all’uomo?
(27.
Agos. 1821.)
Chi
maneggia d’intorno a se un rasoio, o altro ferro o cosa che possa offendere, e
teme di offendersi, è in pericolo grande di farlo: perchè? perchè pone troppa
cura e intenzion d’animo ad evitarlo; e ciò glielo rende difficile.
(27.
Agosto. 1821.)
Quanto l’uomo
sia invincibilmente inclinato a misurar gli altri da se stesso, si può vedere
anche nelle persone le più pratiche del mondo. Le quali se, p.e. sono
fortemente morali, per quanto conoscano, e sentano e vedano, non si
persuaderanno mai intimamente che la moralità non esista più, e [1573]sia
del tutto esclusa dai motivi determinanti l’animo umano. Lo dirà ancora, lo
sosterrà, in qualche accesso di misantropia arriverà a crederlo, ma come si
crede momentaneamente a una viva e conosciuta illusione, e non se ne persuaderà
mai nel fondo dell’intelletto. (Lascio i giovani i quali essendo ordinariamente
virtuosi, non si convincono mai prima dell’esperienza, che la virtù sia nemmeno
rara.) Così viceversa ec. ec. ec. Esempio, mio padre.
(27.
Agosto. 1821.)
Dice
Cicerone (il luogo lo cita, se ben mi ricordo, il Mai, prefazione alla versione
d’Isocrate, de Permutatione) che gli uomini di gusto nell’eloquenza non
si appagano mai pienamente nè delle loro opere nè delle altrui, e che la mente
loro semper divinum aliquid atque infinitum desiderat, a cui le forze
dell’eloquenza non arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all’arte,
alla critica, al gusto.
Ma ora
lo considero in quanto ha relazione a quel perpetuo desiderio e scontentezza
che lasciano, siccome tutti i piaceri, [1574]così quelli che derivano
dalla lettura, e da qualunque genere di studio; ed in quanto si può riferire a
quella inclinazione e spasimo dell’uomo verso l’infinito, che gli antichi,
anche filosofi, poche volte e confusamente esprimono, perchè le loro sensazioni
essendo tanto più vaste e più forti, le loro idee tanto meno limitate e
definite dalla scienza, la loro vita tanto più vitale ed attiva, e quindi tanto
maggiori le distrazioni de’ desiderii, che la detta inclinazione e desiderio
non potevano sentirlo in un modo così chiaro e definito come noi lo
sentiamo.
Osservo
però che non solo gli studi soddisfanno più di qualunque altro piacere,
e ne dura più il gusto, e l’appetito ec. ma che fra tutte le letture, quella
che meno lascia l’animo desideroso del piacere, è la lettura della vera poesia.
La quale destando mozioni vivissime, e riempiendo l’animo d’idee vaghe e
indefinite e vastissime e sublimissime e mal chiare ec. lo riempie quanto più
si possa a questo mondo. Così che Cicerone [1575]non avrebbe forse
potuto dire della poesia ciò che disse dell’eloquenza. Ben è vero che questa è
proprietà del genere, e non del poeta individualmente, e non deriva dall’arte
sua, ma dalla materia che tratta. Certo è che un poeta con assai meno arte ed
abilità di un eloquente, può lasciare un assai minor vôto nell’animo, di quello
che possa il più grande oratore; e produr ne’ lettori quel sentimento che
Cicerone esprime, in assai minor grado.
(27.
Agos. 1821.)
L’ingenuità
p.e. di un fanciullo riuscirebbe graziosa anche all’uomo naturale, perch’essa
gli riuscirebbe non ordinaria, essendo sempre alquanto diversa dal suo proprio
costume e degli altri suoi coetanei, co’ quali più che con gli altri si
convive, e da’ quali più che dagli altri l’uomo piglia e forma l’idea dell’uomo.
(27.
Agosto. 1821.)
Tanto è
vero esser la grazia del tutto relativa, che gli uomini svogliati e blasés dal lungo uso de’ piaceri ec. hanno bisogno di un forte straordinario per
provare il senso della grazia, tanto che quello straordinario che ad essi par
grazioso, ad altri par difettoso, e produce il senso e il giudizio della [1576]sconvenienza.
Come quei palati che hanno bisogno dei ragoûts e delle salse ad esser
solleticati. Questo effetto è comunissimo oggidì, stante la natura della nostra
civiltà, massime riguardo alle donne negli uomini, e viceversa. Quel naso retroussé che fa miracoli presso Marmontel, gli fa in Solimano, annoiato, com’è naturale
a un Sultano, dall’eccesso de’ piaceri ec. E forse la massima parte delle cose
che oggi si hanno per graziose, e lo sono, non debbono questa qualità che alla
svogliatura di questo secolo, o di questa o quella nazione. Il numero di queste
grazie derivanti da sola svogliatura è infinito, e comunissimo nella nostra
vita. E si può prevedere che crescerà di mano in mano, e che oltracciò
diverranno grazie molte qualità delle cose, che ora si hanno per difetti, anche
gravi, e che producono un vivo senso e giudizio di sconvenienza.
(27.
Agosto 1821.)
Quanto
sia vero che la bellezza delle fisonomie dipende dalla loro significazione,
osservate. L’occhio è la parte più espressiva del volto e della persona; l’animo
si dipinge sempre nell’occhio; una persona d’animo grande ec. ec. [1577]non
può mai avere occhi insignificanti; quando anche gli occhi non esprimessero nulla,
o fossero poco vivi in qualche persona, se l’animo di costei si coltiva,
acquista una certa vita, divien furbo e attivo, ec. ec. l’occhio parimente
acquista significazione, e viceversa accade nelle persone d’occhio naturalmente
espressivo, ma d’animo torpido ec. per difetto di coltura ec. ec.; nei diversi
momenti della vita, secondo le passioni ec. che ci commuovono, l’occhio assume
diverse forme, si fa più o men bello ec. ec. Ora l’occhio ch’è la parte più
significativa della forma umana, è anche la parte principale della bellezza.
(Questo si può dimostrare con molte considerazioni.) Un paio d’occhi vivi ed
esprimenti penetrano fino all’anima, e destano un sentimento che non si può
esprimere. Questo si chiama effetto della bellezza, e questa si crede dunque
assoluta; ma non v’ha niente che fare; egli è effetto della significazione,
cosa indipendente dalla sfera del bello, e la bellezza principale dell’occhio,
non appartenendo alla convenienza, non entra in quello che il filosofo
considera come bello.
[1578]Dipingete un viso senz’occhi, voi
non sapete ancora s’egli è bello o brutto, e non vi formate un’idea sufficiente
di quella fisonomia (fosse anche un ritratto somigliantissimo). Aggiungeteveli,
e quella fisonomia vi par tutt’altra da quella di prima ec. ec. Quest’osservazione
si può molto amplificare e distinguere in molte parti.
Un viso
irregolare con un bell’occhio par bello, con occhio insignificante, si troverà
regolare ma non bello. Dunque quello che noi chiamiamo bello nell’umana
fisonomia, ch’è singolarmente proprio della bellezza di essa, quell’effetto
particolare ch’essa produce, e che non è prodotto da verun’altra regolarità,
quell’effetto che si potrebbe considerare come assoluto, non appartiene al
bello (oltre che anch’esso varia secondo gl’individui ec.), ma alla
significazione, e deriva da una cagione simile a quella per cui si giudicano
universalmente belle le donne baJækolpoi.
Parecchie
fisonomie di animali somigliano all’umana. Osservate e vedrete che questa
somiglianza siede principalmente nell’occhio. E generalmente parlando l’occhio
di ciascun animale [1579]determina la sua fisonomia, e l’impressione ch’ella
ci fa. Un animale senz’occhi, o i cui occhi non si vedano, o sien fatti
diversamente dai nostri (come quelli delle lumache), tali animali non hanno
fisonomia per noi; talora neppur ci paiono appartenenti al nostro genere, cioè
al regno animale. E lo ci parrebbero se avessero occhi simili ai nostri, quando
anche tutto il resto della loro forma differisse affatto dalle forme generalmente
comuni agli animali. L’occhio insomma sembra essere il costituente di ciò che
si chiama fisonomia, e quasi anche (almeno nella nostra idea) di tutto l’aspetto
dell’animale.
L’altezza
della fronte è indizio di talento, d’anima nobile, suscettibile, capace ec. V.
Lavater. E l’altezza della fronte è bellezza e piace; e viceversa la bassezza.
Il volto
è la parte più significativa dell’uomo. E il volto è la parte principale della
bellezza umana, come ho sviluppato altrove.
Per un
esempio e in conferma di quanto ho detto altrove, che l’eleganza, la grazia ec.
dello scrivere antico, la semplicità de’ concetti e de’ modi, la purità ec.
della lingua, sono o in tutto o in parte piaceri artifiziali, dipendenti dall’assuefazione
e dall’opinione, relativi ec. e fanno maggior effetto in noi, e ci piacciono
più che agli stessi antichi, a quegli stessi scrittori che ci recano oggidì
tali piaceri ec. ec. si può addurre il Petrarca, [1580]e il disprezzo in
che egli teneva i suoi scritti volgari, apprezzando i latini che più non si
curano. Egli certo non sentiva in quella lingua illetterata e spregiata ch’egli
maneggiava, in quello stile ch’egli formava, la bellezza, il pregio e il
piacere di quell’eleganza, di quella grazia, naturalezza, semplicità, nobiltà,
forza, purità che noi vi sentiamo a prima giunta. Egli non si credeva nè puro
(in una lingua tutta impura e barbara come giudicavasi la italiana, corruzione
della latina) nè nobile, nè elegante ec. ec. L’opinione, l’assuefazione ec. o
piuttosto la mancanza di esse glielo impedivano.
(28.
Agos. 1821)
Dalla
mia teoria del piacere si conosce per qual ragione si provi diletto in questa
vita, quando senza aspettarne nè desiderarne vivamente nessuno, l’animo
riposato e indifferente, si getta, per così dire, alla ventura in mezzo alle
cose, agli avvenimenti, e agli stessi divertimenti ec. Questo stato non curante
de’ piaceri nè de’ dolori, è forse uno de’ maggiori piaceri, non solo per altre
cagioni, ma per se stesso.
[1581]Parecchie volte un vigore straordinario
e passeggero, cagiona al corpo e a’ nervi un certo torpore, per cui l’animo s’abbandona
in seno di una negligenza circa le cose e se stesso, in maniera che o vede
tutto dall’alto, e come non gli appartenesse se non debolissimamente; o non
pensa quasi a nulla, e desidera e teme il meno che sia possibile. Questo stato
è per se stesso un piacere.
Il
languore del corpo alle volte è tale, che senza dargli affanno e fastidio,
affievolando le facoltà dell’animo, affievola ogni cura e ogni desiderio. L’uomo
prova allora un piacere effettivo, massime se viene da uno stato affannoso ec.
e lo prova senz’alcun’altra cagione esterna, ma per quella semplice dimenticanza de’ mali, e trascuranza de’ beni, desideri e speranze, e per quella specie d’insensibilità
cagionatagli da quel languore.
(28.
Agos. 1821.)
La
letteratura italiana fu per alcun tempo universale in modo che per cagione di
essa si studiava e sapeva la nostra lingua nelle altre nazioni civili, anche
dalle donne, come oggi il [1582]francese. E nondimeno la lingua italiana
ha bensì lasciato alle altre parecchie voci spettanti alla nomenclatura di
quelle scienze o arti che l’Italia ha comunicato agli stranieri, ma poche o
quasi nessuna appartenente alla letteratura. Questo accade perchè la lingua
italiana non è stata mai universale se non a causa della letteratura, e in
quanto letterata. Ed è una nuova prova che la letteratura è debolissima fonte
di universalità. Le altre lingue letterate, state universali non per questa
sola, ma per altre cagioni insieme, hanno introdotto e introducono, hanno
perpetuato ec. nelle altre lingue non poche voci e modi spettanti alla
letteratura. Forse anche il detto effetto deriva dal poco tempo che durò l’influenza
della letteratura italiana, dalla poca coltura delle nazioni che la
risentirono, dal poco stretto commercio delle nazioni in que’ tempi, dallo
scarso numero de’ letterati che v’avevano allora tra’ forestieri, e quindi di
coloro che coltivarono la nostra lingua ec. sebbene ho detto ch’ell’era
coltivata anche dalle donne, e ciò fino al tempo di Luigi 14. I costumi sono la
principal [1583]fonte della universalità di una lingua. La letteratura
può servire a introdurre i costumi e le opinioni ec. Senza ciò, la lingua per
mezzo suo poco si propaga. E piuttosto rimangono alle altre lingue qualche voce
spettante a qualche costume ec. ec. venuto di qua più o meno anticamente, che
alla nostra letteratura.
(28.
Agos. 1821.)
Nessuno
vede più degli altri, ma qualcuno osserva e combina più degli altri. Quello che
accade nelle scienze fisiche, accade nelle metafisiche e morali. In quelle e in
queste, una scoperta fatta si comunica e partecipa a chicchessia. Un
ragionamento ben espresso e sviluppato il quale conduca alle verità le più
remote dall’opinione e dalla cognizione comune, può subito essere inteso dallo
stesso volgo. Ognuno può vedere da che uno ha veduto. ec. ec.
Moltissimi
piaceri non son quasi piaceri, se non a causa della speranza e intenzione che
si ha di raccontarli. Tolta questa vi troveremmo un gran vuoto. Questa rende
piacevoli le cose che non lo sono, anche le dispiacevoli ec. ec. Questi effetti
però ponno riferirsi all’ambizione, al desiderio di parere interessante, ec.
non a quello di comunicare e dividere le proprie sensazioni. [1584]
(29.
Agos. 1821.)
Le
persone stesse che sono sensibili, suscettive d’entusiasmo ec. non lo sono
sempre, o quando più quando meno, secondo le circostanze, e anche secondo certi
tempi alle volte periodici. Ora il sintoma del ritorno della sensibilità ec. o
della maggior forza e frequenza abituale de’ suoi effetti, è, si può dir,
sempre, una scontentezza, una malinconia viva ed energica, un desiderio non si
sa di che, una specie di disperazione che piace, una propensione ad una vita
più vitale, a sensazioni più sensibili. Anzi la sensibilità e l’entusiasmo in
tali ritorni non compariscono bene spesso che sotto queste forme. Ecco come la
sensibilità, e l’energia delle facoltà dell’anima sia compagna della
scontentezza e del desiderio, e quindi dell’infelicità, specialmente quando
nulla corrisponde all’attività interna, come risulta dalla mia teoria del
piacere, e dagli altri pensieri che la riguardano.
(29. Agos. 1821.)
On peut plaider pour la vie, et il y a cependant assez
de bien à dire de la mort, ou de ce qui lui ressemble. (Corinne, t. [1585]2.
p.335.) Dalla mia teoria del piacere (v. anche il pensiero precedente, e la
p.1580-81.) risulta che infatti, stante l’amor proprio, non conviene alla
felicità possibile dell’uomo se non che uno stato o di piena vita, o di piena
morte. O conviene ch’egli e le sue facoltà dell’animo sieno occupate da un
torpore da una noncuranza attuale o abituale, che sopisca e quasi estingua ogni
desiderio, ogni speranza, ogni timore; o che le dette facoltà e le dette
passioni sieno distratte, esaltate, rese capaci di vivissimamente e quasi
pienamente occupare, dall’attività, dall’energia della vita, dall’entusiasmo,
da illusioni forti, e da cose esterne che in qualche modo le realizzino. Uno
stato di mezzo fra questi due è necessariamente infelicissimo, cioè il
desiderio vivo, l’amor proprio ardente, senza nessun’attività, nessun pascolo
alla vita e all’entusiasmo. Questo però è lo stato più comune degli uomini. Il
vecchio potrà talvolta trovarsi nel primo stato, ma non sempre. Il giovane
vorrebbe sempre trovarsi nel secondo, e oggidì si trova quasi sempre nel terzo.
Così dico proporzionatamente dell’uomo di mezza età. Dal che segue [1586]1.
che il giovane senz’attività, il giovane domo e prostrato e incatenato dalle
sventure ec. è nello stato precisamente il più infelice possibile: 2. che l’amor
proprio non potendo mai veramente estinguersi, e i desiderii pertanto esistendo
sempre con maggiore o minor forza, sì nel giovane che nel maturo e nel vecchio;
lo stato al quale la generalità degli uomini, e la natura immutabile inclina è
sempre più o meno il secondo: e quindi la migliore repubblica è quella che
favorisce questo secondo stato, come l’unico conducente generalmente alla
maggior possibile felicità dell’uomo, l’unico voluto e prescritto dalla natura,
tanto per se stessa e primitivamente (come ho spiegato nella teoria del
piacere); quanto anche oggidì, malgrado le infinite alterazioni della razza
umana.
(29.
Agos. 1821.)
La
scienza non supplisce mai all’esperienza, cosa generalissima ed evidentissima.
Il medico colla sola teorica non sa curar gli ammalati; il musico fornito della
sola teoria della sua professione, non sa nè comporre nè eseguire una melodia;
il letterato che non ha mai scritto, non sa scrivere; il filosofo che non [1587]ha
veduto il mondo da presso, non lo conosce. I principi pertanto non conoscono
mai gli uomini, perchè non ne ponno mai pigliare esperienza, vedendo sempre il
mondo sotto una forma ch’egli non ha. Lascio le adulazioni, le menzogne, le
finzioni ec. de’ cortigiani; ma prescindendo da questo, il principe non ha
cogli altri uomini se non tali relazioni, che essi non hanno con verun altro.
Ora le relazioni ch’egli ha con gli uomini, sono l’unico mezzo ch’egli ha di
acquistarne esperienza. Dunque egli non può mai conoscer la vera natura di
coloro a’ quali comanda, e de’ quali deve regolar la vita. Io ho molto
conosciuto una Signora che non essendo quasi mai uscita dal suo cerchio
domestico, ed avvezza a esser sempre ubbidita, non aveva imparato mai a
comandare, non aveva la menoma idea di quest’arte, nutriva in questo proposito
mille opinioni assurde e ridicole, e se talvolta non era ubbidita, perdeva la
carta del navigare. Ell’era frattanto di molto spirito e talento,
sufficientemente istruita, e studiosamente educata. Ella si figurava gli uomini
affatto diversi da quel che sono: [1588]il principe che ne vede e tratta
assai più, benchè li veda assai più diversi da quelli che sono, tuttavia potrà
conoscerli forse alquanto meglio; ma proporzionatamente parlando, e attesa la
tanto maggior cognizione degli uomini che bisogna a governare una nazione, di
quella che a governare una famiglia, io credo che un principe sappia tanto
regnare, quanto quella dama comandare a’ figli e a’ domestici. Sotto questo
riguardo il regno elettivo sarebbe assai preferibile all’ereditario. Vero è
però che niuno conosce gli uomini interamente, come bisognerebbe per ben
governarli. Connaître un autre parfaitement serait l’étude d’une vie
entière; qu’est-ce donc qu’on entend par connaître les hommes? les gouverner,
cela se peut, mais les comprendre, Dieu seul le fait. (Corinne. l.10. ch.1.
t.2. p.114.).
La manière de vivre des Chartreux suppose, dans les
hommes qui sont capables de la mener, ou un esprit extrêmement borné, ou la
plus noble et la plus continuelle exaltation des sentiments religieux. (Corinne, lieu cité ci-dessus.
p.113.) Così è: l’inattività e la monotonia non conviene che agli spiriti
menomi [1589]o sommi. Gli uni e gli altri per diversissima ragione
cercano il metodo e il riposo. Gli uni per sopire i desiderii che li
tormentano, gli altri perchè non ne hanno. Gli uni perchè la vita non basta
loro, si rifuggono alla morte, gli altri perchè il loro animo non vive. Gli uni
ancora perchè non hanno bisogno di vita esterna, vivendo assai internamente,
gli altri perchè non abbisognano d’alcuna vita. Gli spiriti mediocri, cioè la
massima parte degli uomini, sono incompatibili con questo stato, e
infelicissimi in esso, o in altro che lo somigli. V. la p.1584. fine.
(30. Agos.
1821.)
Chi ha
perduto la speranza d’esser felice, non può pensare alla felicità degli altri,
perchè l’uomo non può cercarla che per rispetto alla propria. Non può dunque
neppure interessarsi dell’altrui infelicità.
(30.
Agos. 1821.)
Vuoi tu
vedere l’influenza dell’opinione e dell’assuefazione sul giudizio e sul
sentimento, per così dire, fisico delle proporzioni; anzi come questo nasca
totalmente dalle dette cause, e ne sia interamente determinato? [1590]Osserva
una donna alta e grossa vicina ad un uomo di giusta corporatura. Assolutamente
tu giudichi e ti par di vedere che le dimensioni di quella donna sieno maggiori
di quelle dell’uomo strettamente parlando. Ragguaglia le misure e le troverai
spessissimo uguali, o maggiori quelle dell’uomo. Osserva una donna di giusta
corporatura vicino ad un uomo piccolo. Ti avverrà lo stesso effetto e lo stesso
inganno. Similmente in altri tali casi. Questi sono dunque inganni dell’occhio:
e da che prodotti? che cosa inganna lo stesso senso? l’opinione e l’assuefazione.
(30. Agos. 1821.). Alla Commedia in Bologna vidi una donna vestita da uomo:
pareva un bambolo. In un altro atto ella uscì fuori da donna, facendo un altro
personaggio: mi parve, com’era, un gran pezzo di persona.
Non si
sa che i costumi de’ romani passassero ai greci neppur dopo Costantino. Dico,
non questo o quel costume, ma la specie e la forma generale de’ costumi, come
quella che da’ greci passò realmente a’ romani, e da’ francesi agl’italiani
principalmente, e agli altri popoli civili proporzionatamente. Da che i costumi
de’ greci furono formati, essi li comunicarono agli altri, ma non li
ricevettero mai più da nessuno. Quindi la sì lunga incorruttibilità della loro
lingua, e la [1591]sua durata fino al presente. La tenacità che i greci
ebbero sempre per le cose loro, e l’amore esclusivo che portarono e portano
alla loro nazione, e a’ loro nazionali, è maravigliosa. Ho udito di alcune
colonie greche ancora sussistenti in Corsica e in Sicilia, dove i coloni
parlano ancora il greco, conservano i costumi greci, e non hanno stretta
società se non fra loro, benchè abitino in mezzo a un paese di nazione diversa,
e sieno soggetti a un governo forestiero. Le relazioni de’ viaggiatori intorno
alla Grecia, ed agli altri paesi abitati da greci, confermano questa
invincibile tenacità. Dove si trovano greci cattolici e scismatici, insieme con
altri cattolici, i greci cattolici, malgrado il divieto della loro religione,
de’ loro vescovi (per lo più forestieri), e l’impero che queste cose hanno
sulla loro opinione, vogliono piuttosto congiungersi in matrimonio ec. co’ loro
nazionali scismatici che co’ cattolici forestieri, fanno stretta alleanza fra
loro, e spesso declinano dall’una all’altra religione. Si potrebbe riferire a
questa osservazione il cattivo esito de’ tanti negoziati fatti al tempo del
Concilio di Firenze, per sottomettere la Chiesa greca alla latina, e indurla a
riconoscere un’autorità [1592]forestiera. È noto che mentre il rito
latino si stabiliva in quasi tutto il resto del Cristianesimo, il rito greco, e
in esso la lingua greca conservavasi e conservasi in tutta la Chiesa greca
comunicante, in qualunque paese ella sia. E son pur noti i privilegi della
Chiesa greca Cattolica, e la specie d’indipendenza che gli è accordata, e la
renitenza ch’ella suole opporre a quella stessa parte di dominio che la Chiesa
latina conserva su di lei.
E non è
maraviglioso lo stato presente dei greci? Non si distinguono più le razze gote,
longobarde ec. dalle italiane, nè le franche dalle celtiche o romane, nè le
moresche dalle spagnuole. Le lingue sono pur confuse in questi paesi ec. Non si
discernono mai gli Arabi da’ Persiani nella Persia, la religione Araba v’è
stabilita universalmente, la lingua Persiana tutta mista d’arabesco. Le razze e
le costumanze tartare si vengono di mano in mano confondendo nella China colle
razze e costumanze cinesi. Ma i greci non sono divenuti mai turchi, nè i turchi
greci. Due religioni, due lingue, due maniere di costumi e di usanze, d’inclinazioni
e di carattere ec. due nazioni insomma totalmente difformi convivono in un
paese dove l’una è tuttavia forestiera benchè signora, [1593]l’altra
ancora indigena benchè schiava. E se i costumi greci, e quindi la lingua sono
cambiati da quelli di prima, questo cambiamento deriva piuttosto dal tempo, e
da altre circostanze inevitabilmente alteranti, che dal commercio giornaliero
con una nazione straniera. La presente modificazione de’ costumi e dell’indole
greca, è quasi affatto indipendente da’ costumi e dall’indole turca: e il tempo
le ha piuttosto levato che aggiunto nulla. L’odierna rivoluzione della Grecia,
alla quale prendono parte i greci di quasi tutti i paesi i più segregati; la
quale ha riunito una nazione schiava in maniera da renderla formidabile ec. ec.
dimostra qual sia lo spirito nazionale dei greci, la ricordanza e la tenacità
delle cose loro, l’unione singolarissima fra gl’individui di un popolo schiavo,
l’odio che portano a quello straniero con cui e sotto cui vivono da sì gran
tempo, l’odio nazionale insomma inseparabile dall’amor nazionale, e fonte di
vita ec. (v. p.1606. capoverso 1.) L’affare di Parga ec. fa pure al proposito.
(30.
Agos. 1821.)
Gli
Ottentotti hanno generalmente un tumore adiposo sotto il coccige. Le parti
sessuali delle loro donne sono singolarmente costruite. Crediamo noi che queste
singolarità siano bruttezze per loro? anzi che non sarebbe brutto per loro chi
non le avesse?
[1594]La forza dell’opinione, dell’assuefazione
ec. e come tutto sia relativo, si può anche vedere nelle parole, ne’ modi, ne’
concetti, nelle immagini della poesia e della prosa comparativamente. Paragone
il quale si può facilmente istituire, mostrando come una parola, una sentenza
non insolita, che non fa verun effetto nella prosa perchè vi siamo assuefatti,
lo faccia nel verso ec. ec. ec. e puoi vedere la p.1127.
(31.
Agos. 1821.)
La
bellezza è naturalmente compagna della virtù. L’uomo senza una lunga esperienza
non si avvezza a credere che un bel viso possa coprire un’anima malvagia. Ed ha
ragione, perchè la natura ha posto un’effettiva corrispondenza tra le forme
esteriori e le interiori, e se queste non corrispondono, sono per lo più
alterate da quelle ch’erano naturalmente. Pure è certo che i belli sono per lo
più cattivi. Lo stesso dico degli altri vantaggi naturali o acquisiti. Chi li
possiede, non è buono. Un brutto, un uomo sprovvisto di pregi e di vantaggi,
più facilmente s’incammina alla virtù. Gli uomini senza talento sono più
ordinariamente buoni, che quelli che ne son ricchi. E tutto ciò è ben naturale
nella società. L’uomo insuperbisce del vantaggio che si accorge [1595]di
avere sugli altri, e cerca di tirarne per se tutto quel partito che può. S’egli
è più forte, fa uso della sua forza. Il più debole si raccomanda, e segue la
strada che più giova e piace agli altri, per cattivarseli. Il forte non
abbisogna di questo. Ecco l’abuso de’ vantaggi. Abuso inevitabile e certo,
posta la società. Così dico de’ potenti ec. i quali non ponno essere virtuosi.
Ne’ privati a me pare che non si trovi vera affabilità, vera e costante
amabilità e facilità di costumi, interesse per gli altri ec. se non che nei
brutti, in chi ha qualche svantaggio, è nato in bassa condizione ed
assuefattoci da piccolo, ancorchè poi ne sia uscito, è povero o lo fu, ovvero
negli sventurati.
Ora
domando io. Sono vantaggi o non sono, la bellezza, l’ingegno ec. ec.? La virtù
ec. un certo buon ordine ec. ec. sono o non sono voluti dalla natura? (Questo è
certo, perchè il fanciullo e il giovane v’è sempre inclinato). Che strana
contraddizione è dunque questa che nello stato di società i vantaggi naturali e
acquisiti sieno quasi assolutamente incompatibili colla bontà de’ costumi? che
per trovar questa, bisogni [1596]desiderare che il tale o tal altro sia
brutto, sciocco ec. ec.? anzi che la maggior parte degli uomini, e tutti, se
fosse possibile, fossero tali pel bene del mondo? (I devoti sogliono infatti
chiamar favori e benefizii di Dio, questi e altri tali svantaggi). Che vuol dir
tutto ciò? che lo stato sociale è contraddittorio colla natura, e con se stesso.
Giacchè esso stesso non può sussistere senza la virtù e la morale, unico legame
degli uomini, e sola sufficiente garanzia dell’ordine e della società ec. e
queste non possono stare con un’altra cosa che è parimente necessaria al bene
della società, vale a dire i vantaggi e i beni individuali. Quello che dico
degl’individui dico anche delle nazioni. È noto come la giustizia ec. ec.
sogliano essere osservate dalle nazioni e principi deboli o infelici ec. e
trascurate affatto dalle altre, e da esse stesse appena arrivano alla felicità
e forza, come accadde a Roma.
(31.
Agosto 1821.)
Il
sopraddetto si può se non altro, e con molto maggior forza applicare a
dimostrare le ingenite ed essenziali contraddizioni che rinchiude uno stato di civiltà
come il presente.
(31.
Agos. 1821.)
[1597]Tutto nella natura è armonia, ma
soprattutto niente in essa è contraddizione. Non è possibile che, massime in un
medesimo individuo, in un medesimo genere di esseri, e degli esseri più elevati
nell’ordine naturale, siccom’è l’uomo, la perfezione di una parte principale e
importantissima di esso, voluta e ordinata dalla natura, noccia a quella di un’altra
parte similmente principalissima. Ora se quella che noi chiamiamo perfezione
del nostro spirito, se la civiltà presente fosse stata voluta e ordinata dalla
natura, e se ella fosse insomma veramente la nostra perfezione, allora la
contraddizione assurda che ho detto, si verificherebbe; giacchè è
incontrastabile che questa pretesa perfezione dell’animo nuoce al corpo.
Primieramente
ricordatevi di ciò che ho spiegato altrove, che la debolezza corporale giova, e
il vigore nuoce all’esercizio e allo sviluppo delle facoltà mentali massime
appartenenti alla ragione. E viceversa l’esercizio e lo sviluppo di queste
facoltà nuoce estremamente al vigore e al ben essere del corpo. Onde Celso fa
derivare l’indebolimento degli [1598]uomini e le malattie dagli studi, e
ciascun pensatore o studioso ne fa l’esperienza in se, quanto al deterioramento
individuale del suo corpo. Nè solamente per le fatiche, ma in centomila altri
modi lo sviluppo della ragione nuoce al corpo, colle pene che cagiona, coi mali
che ci scuopre, e che ignoti non sarebbero stati mali, coll’inattività
corporale a cui ci spinge anche per massima, e coi tanti begli effetti che costituiscono
la natura della civiltà, e dello stato presente del mondo, derivato quasi tutto
dallo sviluppo della ragione. Se dunque l’infinito sviluppo della ragione
costituisce la perfezione propria dell’uomo, la natura, torno a dire, è in
contraddizione, perchè la perfezione di una parte nuoce a quella dell’altra, e
fino arriva a distruggere questa parte, tanto a poco a poco, quanto in un punto
mediante il suicidio. Anzi non solo la perfezione di una parte nuoce a quella
dell’altra, ma una perfezione di una stessa parte o del tutto nuoce ad un’altra
perfezione manifestamente voluta dalla natura.
Lo
sviluppo della ragione e la civiltà che ne deriva a noi sembra perfezione
propria non solo dell’animo umano, ma anche [1599]del corpo, cioè
insomma di tutto l’uomo. Ora domando io: le malattie, la debolezza, l’impotenza,
la fragilità e suscettibilità somma, sono elleno perfezioni del corpo umano e
dell’uomo? Non è egli evidente che la natura ha voluto che noi fossimo ben sani
e robusti? Tutto potrà mettersi in dubbio fuori che la natura abbia sempre
mirato al ben essere materiale delle sue creature. Quest’è una verità che si
sente senza bisogno di provarla. La natura ha posto mille ostacoli allo
sviluppo della ragione ec. ma ha per tutti i versi favorito il pieno sviluppo
delle facoltà corporali, e il vigore del corpo ec. ec. Gli uomini hanno avuto
bisogno di moltissimi secoli per arrivare a questo sviluppo della ragione: ma
lo sviluppo del corpo umano è stato perfetto da principio, ed è andato anzi
deteriorando col progresso del tempo e della civiltà. La natura o per
disposizioni ingenite, o per disposizioni accidentali ma inevitabili e ordinarie,
ha negato alla maggior parte degl’intelletti la possibilità o di svilupparsi, o
di giungere in qualunque modo alla pretesa perfezione; ma a nessuno, se non per
inconvenienti casuali e imprevedibili, ha negato la facoltà di [1600]conseguire
il ben essere del corpo; anzi questo, tolti i detti inconvenienti casuali e
fuor d’ordine, si porta naturalmente con se nascendo. Egli è dunque evidente
che la natura ha stabilita al corpo umano la perfezione del vigore ec. ec.; che
il pieno ben essere e floridezza del corpo, è perfezione, non mica accidentale,
ma essenziale e propria dell’uomo, e ordinata dalla natura, come in ordine a tutti
gli altri esseri. Egli è anzi evidente che il corpo fu considerato dalla natura
nell’uomo siccome negli altri viventi, più che l’animo, e per conseguenza che
la sua perfezione è assolutamente voluta dalla natura, e per conseguenza non
può essere perfezione dell’uomo quella che si oppone alla sopraddetta, giacchè
contrasta colla sua propria e naturale essenza, e ripugna a una qualità non
accidentale, ma ordinata dalla natura. Del resto chi può negare che gl’incomodi
corporali e sensibili, una certa impotenza che ben si sente non esser naturale,
opporsi ed essere sproporzionata alle nostre inclinazioni, ed alle forze
stesse di quell’animo che noi abbiamo coltivato, e coltiviamo, la
debolezza, le malattie abituali o attuali, e la facilità somma che abbiamo di
cadervi ec. ec. non sieno imperfezioni nell’uomo? [1601]Ora che la
civiltà abbia realmente e grandemente pregiudicato, e continuamente pregiudichi
al corpo umano, e ne attenui il valore, ve ne hanno mille altre prove, ma
considereremo solamente questa. Non può negarsi quello che tanti antichi
degnissimi di fede, e anche testimoni oculari raccontano delle straordinarie
corporature de’ Galli e de’ Germani prima che fossero civilizzati. Ora mediante
la civiltà essi son ridotti alla forma ordinaria, e si può ben credere che così
sia avvenuto agli altri popoli la cui civilizzazione è più antica. Lascio gli
atleti greci e romani, delle cui forze v. Celso. Delle forze ordinarie de’
soldati romani v. Montesquieu, Grandeur ec. ch.2. p.15. nota, p.16. segg. Che
la nosologia degli antichi fosse più scarsa di quella de’ moderni, è visibile.
Ma essi eran già molto civilizzati, massime a’ tempi p.e. di Celso. La
nosologia de’ popoli selvaggi è di ben poche pagine, e il loro stato ordinario
di salute e di robustezza, è cosa manifesta a chiunque li visita, e ciò anche
ne’ più difficili climi. Insomma egli è più che evidente che la nosologia
cresce di volume, [1602]e la salute umana decresce, in proporzione della
civiltà. Questo si vede anche nelle razze de’ cavalli, de’ tori ec. che passati
dalle selve alle nostre stalle, e ad una vita meno incivile, indeboliscono e
degenerano appoco appoco. Lo stesso dico delle piante coltivate con cura ec.
Esse acquisteranno in delicatezza ec. ec. ma perderanno sempre in forza, e se
per quella delicatezza saranno meglio adattate a’ nostri usi (massime nel
nostro stato presente, sì diverso dal naturale), ciò non prova che non sieno
degenerate. Effettivamente la principal qualità naturale, la principal
perfezione materiale voluta e ordinata dalla natura in tutto che vive o vegeta,
non è la delicatezza ec. ma il vigore relativo a ciascun genere di
esseri. Il vigore è salute, v. p.1624. il vigore è potenza, è facoltà di
eseguire completamente tutte le convenienti operazioni ec. ec. è facilità di
vivere; il vigore insomma è tutto in natura: e la natura non è principalmente e
caratteristicamente delicata, ma forte rispettivamente e proporzionatamente
alla capacità ec. di ciascuna sua parte.
[1603]Dalle sopraddette osservazioni
risulta un’altra gran prova del come l’idea del bello sia relativa e mutabile,
e dipendente non da modello alcuno invariabile, ma dalle assuefazioni che
cambiano secondo le circostanze. Oggi l’idea del bello, racchiude quasi essenzialmente
un’idea di delicatezza. Un robusto villano o villana, non paiono certamente
belli alle persone di città. Il bello nelle nostre idee, esclude affatto il
grossolano. Dovunque esso si trova, (se ciò non è in una certa misura che
mediante lo straordinario e lo stesso sconveniente, produca la grazia) non si
trova il bello per noi, almeno il bello perfetto. Ora egli è certo che gli
uomini primitivi la pensavano ben altrimenti, perchè tutti gli uomini primitivi
eran grossolani. Non esisteva allora una di quelle forme che noi chiamiamo
belle, (ciò si può vedere fra’ selvaggi i quali non sentono la bellezza meno di
noi, benchè non sentano la nostra): e se avesse esistito, sarebbe stata e
chiamata brutta. La delicatezza dunque non entra nell’idea che l’uomo naturale
concepisce del bello. Quindi la [1604]presente idea del bello non è
punto naturale, anzi l’opposto. E pur ci pare naturalissima, confondendo il
naturale collo spontaneo: giacch’ella è spontanea, perchè derivata senza
influenza della volontà dalle assuefazioni ec.
È
probabile che laddove oggi il fondamento o la condizione universale del bello è
la delicatezza, per li primitivi lo fosse ciò che noi chiamiamo grossezza;
perchè il nostro stato, e quindi le nostre assuefazioni e idee sono giusto in
questo punto diametralmente opposte alle primitive e naturali (e selvagge). Ma
se anche la delicatezza entrava, o come straordinaria e quindi graziosa, o in
qualunque altro modo nell’idea primitiva del bello, ella era una delicatezza
diversissima da quella che oggi si stima indispensabile alla bellezza. Ella era
una delicatezza assai minore, e tale che a noi parrebbe poco lungi dal
grossolano e anche grossezza. Siccome per lo contrario la delicatezza presente
ai primitivi sarebbe paruta eccessiva, sconveniente, e brutta. L’idea
insomma della delicatezza poteva forse entrare nel bello primitivamente
concepito, (specialmente nell’uomo rispetto alla donna, della quale è propria
per natura, e quindi conveniente, una delicatezza, ma solo rispettiva, e
proporzionata, e riguardo alla differente natura dell’uomo ec.) ma solo nel
detto modo. E così ogni bellezza è relativa. E proporzionate differenze [1605]si
trovano fra il bello antico e il moderno, fra il bello di una nazione e
quello di un’altra; di un clima, di un secolo, e quello di un altro; fra il
bello degl’italiani e quello de’ francesi ec. ec.
È vero
che l’uomo felice non suol esser molto compassionevole, ma l’uomo notabilmente
infelice, ancorchè nato sensibilissimo non è quasi affatto capace di
compassione spontanea e sensibile. Sviluppa questa verità nelle sue parti, e
nelle sue cagioni.
(1 Sett.
1821.)
Alla
p.1448. Le odierne feste Cristiane son veramente popolari, ma inutili oramai al
sentimento, all’entusiasmo, ec. e quindi inutilmente popolari. Il popolo non vi
prende parte, se non come la prende agli spettacoli, a’ divertimenti ec. anzi
alquanto meno, perchè p.e. gli spettacoli teatrali lo possono animare,
commuovere, e lasciargli qualche impressione nello spirito; ma dopo le feste
Cristiane egli se ne torna a casa col cuore posato, equilibrato, freddo, immoto
come prima. Elle non sono dunque più feste nazionali, nè di setta, nè di
partito ec. [1606]E di ciò n’è causa tanto il raffreddamento particolare
de’ sentimenti religiosi, opera sì del tempo in genere, come di questo tempo
irreligioso; quanto l’estinzione generale di tutte le facoltà vive negli animi
delle nazioni, e l’incapacità odierna de’ popoli ad esser commossi e sollevati
nello spirito, se non da cose affatto straordinarie. Tra noi specialmente n’è
causa ancora il nessun contrasto che incontrano le nostre opinioni religiose, e
la nostra religione generalmente, a differenza p.e. dell’Inghilterra, e anche
della Francia.
(1.
Sett. 1821.)
L’anima
de’ partiti è l’odio. Religione, partiti politici, scolastici, letterarii,
patriotismo, ordini, tutto cade, tutto langue, manca di attività, e di amore e
cura di se stesso, tutto alla fine si scioglie e distrugge, o non sopravvive se
non di nome, quando non è animato dall’odio, o quando questo per qualunque
ragione l’abbandona. La mancanza di nemici distrugge i partiti, e per partiti
intendo pur le nazioni ec. ec.
Alla
p.1602. fine. Nè solo il vigor del [1607]corpo, ma anche quello dello
spirito è singolarmente ordinato dalla natura. Almeno i primi progressi dello
spirito umano sono sempre compagni di una forza (in tutta l’estensione e le
classificazioni del termine) che va di mano in mano scemando e perdendosi coi
successivi progressi della civiltà. Parlino le storie. V. il pensiero
precedente che appartiene pure a questo, perchè l’odio è una delle più vigorose
passioni dell’anima; ed è oggi o estinto o travisato in maniera che è fonte di
tutt’altro che di forza. V. pure il pensiero seguente.
(2.
Sett. 1821.)
I moti e
gli atti degli uomini (e de’ viventi in proporzione delle rispettive qualità)
sono naturalmente vivissimi, specialmente nella passione. La civiltà gli
raddolcisce, gli modera, e va tanto innanzi che oramai gran parte del bel
trattare consiste nel non muoversi, siccome nel parlare a voce bassa ec. e l’uomo
appassionato quasi non si distingue dall’indifferente per verun segno esterno.
L’individuo civilizzato copia in se stesso lo stato a cui la società è ridotta
dall’incivilimento come una camera oscura ricopia in piccolissimo una vasta
prospettiva. Non più moto nè in questa nè in [1608]quello. Questa
corrispondenza non è nè casuale nè frivola. E ben importante l’osservare come i
menomi effetti derivino dalle grandi cagioni, come armonizzino insieme le cose
grandi e le piccole, come la natura del secolo influisca sulle menome parti de’
costumi, come dalle piccolissime e giornaliere osservazioni si possa rimontare
alle grandissime e generali. L’animo e il corpo dell’uomo civile si rende
appoco appoco immobile in ragione de’ progressi della civiltà: e si va quasi
distruggendo (gran perfezionamento dell’uomo!) la principal distinzione che la
natura ha posto fra le cose animate e inanimate, fra la vita e la morte, cioè
la facoltà del movimento.
(2 Sett.
1821.)
L’ideologia
comprende i principii di tutte le scienze e cognizioni, e segnatamente della
scienza della lingua. Ma vicendevolmente si può dire che la scienza della
lingua comprende tutta l’ideologia.
(2.
Sett. 1821.)
Tanta è
la facoltà produttrice della lingua greca, e tale la sua mirabile disposizione,
e capacità di qualsivoglia novità, [1609]che in essa, può dirsi che
concepita appena un’idea per nuova ch’ella sia, è già fatta la nuova parola che
l’esprima. Tanto costava l’arricchir quella lingua quanto il concepire un’idea,
o menoma parte o modificazione d’idea in qualunque modo nuova. Laddove nelle
altre lingue, concepita un’idea nuova, ci vuole bene spesso del bello e del
buono per esprimerla. E questo nuoce e ritarda sommamente la chiarezza e
determinatezza della stessa concezione, perchè si può dire che un’idea non si
concepisce mai chiaramente, nè è mai ben determinata e ferma nell’intelletto
del suo stesso ritrovatore, finch’egli non ha trovato una parola o modo
perfettamente corrispondente, e non l’ha saputa ben esprimere e fissare con
questo mezzo a se stesso, e quasi rinchiuderla e incassarla in detta parola.
Questo è ciò che i greci faceano immediatamente, e quindi si conferma quello
che altrove ho detto, cioè che la loro superiorità nella filosofia ec. fra gli
antichi, possa venire in gran parte [1610]dalla natura di loro lingua.
(2 Sett.
1821.)
Si suol
dire, ed è vero, che i gobbi hanno molto spirito. La ragione è chiara. Altra
prova del come lo sviluppo delle facoltà mentali dipenda dalle circostanze,
assuefazioni ec. Lo stesso può dirsi de’ vetturini, e altra gente avvezza a
molto trattare con ogni sorta di persone ec. che divengono sempre furbi,
animati, spiritosi: i loro occhi pigliano espressione e vivacità ec.
(2.
Sett. 1821.)
L’uomo
il più dotto, erudito, letterato, del gusto e giudizio il più fino, dell’ingegno
il più fecondo ec. ec. ma poco avvezzo a trattare, saprà egregiamente e
fecondissimamente scrivere, e non saprà parlare neppur di cose appartenenti a’
suoi studi. E ciò non già per sola soggezione, ma effettivamente gli
mancheranno le parole e i concetti. Tutto è esercizio nell’uomo. Ed è ordinario
il veder uomini studiosi non saper parlare, appunto perchè avvezzi allo studio,
non sono abituati a parlare ma a tacere; oltre ch’essi contraggono sovente e [1611]per
questa e per altre ragioni un carattere di taciturnità, parimente acquisito.
Del resto s’ingannano assai coloro che dal vedere che il tale non sa parlare,
concludono ch’egli non sa pensare, non è coltivato ec. Si può parlare come uno
scimunito, con freddezza e frivolezza estrema ec. ed essere il primo
scienziato, pensatore, scrittore del mondo.
(2.
Sett. 1821.)
Nessun
genere di animali o di cose, per essere qual deve, ebbe o ha bisogno che sorga
un suo individuo fornito di singolari prerogative naturali o acquisite, che
accada la tale scoperta importante, che si dieno le tali e tali infinite
combinazioni ec. ec. La natura quando lo formò, fu ben certa ch’esso sarebbe
qual doveva essere, e qual ella voleva. Ma il genere umano ha avuto ed ha
bisogno di tutto ciò, per arrivare ad essere (così dicono) qual deve. Or dico
io: perchè la perfezione cioè il vero modo di essere del solo genere umano fu
abbandonato dalla natura al caso? È questo un privilegio, o un immenso
svantaggio? [1612]Egli è certo che le facoltà del più privilegiato
individuo umano, non bastano di gran lunga a condurlo a quella che si chiama
perfezione. Dunque la natura non ha provveduto alla perfezione cioè al ben
essere dell’uomo. - Ma egli è fatto per la società. - Neppur basta ch’egli si
metta in questa società. Bisogna che questa duri una lunghissima serie di
generazioni, e che si stenda fino a divenir quasi universale. Allora solo l’uomo,
e l’individuo potrà avvicinarsi a quella perfezione alla quale ancora non siamo
arrivati. È egli possibile che tutto ciò sia necessario al ben essere dell’uomo?
E che la sua perfezione fosse posta dalla natura au bout di sì lunga e
difficile carriera, che dopo seimila anni ancora non è compiuta? Oltre ch’ella,
come risulta, dal sopraddetto, non poteva esser sicura che l’uomo vi arrivasse
mai, essendo stata opera di circostanze non mai essenziali, tutti i pretesi
progressi che si son fatti.
(2.
Sett. 1821.)
Di più:
qual sarà poi questa [1613]perfezione dell’uomo? quando e come saremo
noi perfetti, cioè veri uomini? in che punto, in che cosa consisterà la
perfezione umana? qual sarà la sua essenza? Ogni altro genere di viventi lo sa
bene. Ma la nostra civiltà o farà sempre nuovi progressi, o tornerà indietro.
Un limite, una meta (secondo i filosofi) non si può vedere, e non v’è. Molto
meno un punto di mezzo. Dunque non sapremo mai in eterno che cosa e quale
propriamente debba esser l’uomo, nè se noi siamo perfetti o no ec. ec. Tutto è
incerto e manca di norma e di modello, dacchè ci allontaniamo da quello della
natura, unica forma e ragione del modo di essere.
(2.
Sett. 1821.)
Le cose
non sono quali sono, se non perch’elle son tali. Ragione preesistente, o dell’esistenza
o del suo modo, ragione anteriore e indipendente dall’essere e dal modo di
essere delle cose, questa ragione non v’è, nè si può immaginare. Quindi nessuna
necessità nè di veruna esistenza, nè di tale o tale, e così o così fatta
esistenza. Come dunque immaginiamo noi un Essere necessario? Che ragione v’è
fuori di lui e prima di lui perch’egli esista, ed esista in quel modo, ed
esista ab eterno? - La ragione [1614]è in Lui stesso, cioè l’infinita
sua perfezione.
Che
ragione assoluta vi è perchè quel modo di essere che gli ascriviamo, sia
perfezione? perchè sia più perfetto degli altri possibili? più perfetto delle
stesse altre cose esistenti e degli altri modi di essere? Questa ragione dev’essere
assoluta e indipendente dal modo in cui le cose sono, altrimenti il detto Ente
non sarà assolutamente necessario. Or nessuna se ne può trovare. - Il suo modo
di essere è perfezione perch’egli esiste così. - La stessa ragione milita per
tutte le altre cose e modi di essere. Tutte saran dunque egualmente perfette, e
tutte assolutamente necessarie. Quest’è un giuoco di parole. Bisogna trovare
una ragione perchè il suo modo di essere sia astrattamente e indipendentemente
da qualunque cosa di fatto, più perfetto di tutti gli altri possibili o
esistenti: perchè non sia possibile una maggior perfezione; ovvero un tutt’altro
ordine di cose, dove quel modo di essere non sia neppur buono. Bisogna insomma
porsi al di fuori dell’ordine esistente e di tutti gli ordini possibili, e così
trovare una [1615]ragione per cui le qualità che ascriviamo a quell’Essere
sieno assolutamente e necessariamente perfette, non possano esser diverse, nè
più perfette, non possano esser tali e non esser ottime, e sieno migliori di
tutte le altre possibili.
L’aseità insomma è un sogno o compete a tutte le cose esistenti e possibili. Tutte hanno
o non hanno egualmente in se stesse la ragione di essere e di essere in quel
tal modo, e tutte sono egualmente perfette.
Ma lo
spirito è più perfetto della materia - 1. Che cosa è lo spirito? Come sapete ch’esiste,
non sapendo che cosa sia? non potendo concepire al di là della materia una
menoma forma di essere? 2. perchè è più perfetto della materia? - Perchè non si
può distruggere, e perchè non ha parti ec. - Il non aver parti chi vi ha detto
che sia maggior perfezione dell’averne? Chi vi ha detto che lo spirito non ha
parti? che avendone o no, non si possa distruggere ec. ec.? Come potete
affermare o negar nulla intorno alle qualità di ciò che neppur concepite, e
quasi non sapete se sia possibile? Tutto è dunque un romanzo arbitrario della
vostra fantasia, che può figurarsi un essere come vuole. V. un altro mio
pensiero in tal proposito.
(2.
Sett. 1821.)
[1616]Niente preesiste alle cose. Nè
forme, o idee, nè necessità nè ragione di essere, e di essere così o così ec.
ec. Tutto è posteriore all’esistenza.
Intorno
a quello che ho detto altrove, che tolte le idee innate, è tolto Iddio, tolta
ogni verità ogni buono ogni cattivo assoluto, tolta ogni disuguaglianza di
perfezione ec. tra gli Esseri, e necessario il sistema ch’io chiamo dell’Ottimismo,
v. un bel passo di S. Agostino che ammettendo le idee innate, riconosce questa
verità ch’io dico, presso Dutens, Par.1. cap.2. §.30.
(3.
Sett. 1821.)
Infatti
noi non abbiamo altra ragione di credere assolutamente vero quello ch’è tale
per noi, e che a noi par tale, di credere assolutamente buono o cattivo quello
ch’è tale per noi, ed in quest’ordine di cose; se non il credere che le nostre
idee abbiano una ragione, un fondamento, un tipo, fuori dello stesso ordine di
cose, universale, eterno, immutabile, indipendente da ogni cosa di fatto; che
sieno impresse nella mente nostra per essenza tanto loro, quanto di essa mente,
e della natura intera delle cose; che sieno soprannaturali, cioè [1617]indipendenti
da questa tal natura qual ella è, e dal modo in cui le cose sono, e che per
conseguenza le dette idee e le nozioni della ragione non potessero esser
diverse in qualsivoglia altra natura di cose, purchè l’intelletto fosse stato
ugualmente in grado di concepirle. Fuori di questo, e tolto questo, non resta
alcun’altra ragione per credere assolutamente buona, cattiva, insomma vera
qualsivoglia cosa. Ma veduto che le nostre idee non dipendono da altro che dal
modo in cui le cose realmente sono, che non hanno alcuna ragione indipendente
nè fuori di esso, e quindi potevano esser tutt’altre, e contrarie; ch’elle
derivano in tutto e per tutto dalle nostre sensazioni, dalle assuefazioni ec.;
che i nostri giudizi non hanno quindi verun fondamento universale ed eterno e
immutabile ec. per essenza; è forza che, riconoscendo tutto per relativo, e
relativamente vero, rinunziamo a quell’immenso numero di opinioni che si
fondano sulla falsa, benchè naturale, idea dell’assoluto, la quale, come ho
detto, non ha più ragione [1618]alcuna possibile, da che non è innata,
nè indipendente dalle cose quali elle sono, e dall’esistenza.
(3.
Sett. 1821.)
La
distruzione delle idee innate distrugge altresì l’idea della perfettibilità
dell’uomo. Pare tutto l’opposto, perchè se tutte le sue idee sono acquisite,
dunque egli è meno debitore e dipendente della natura, e quindi si può e deve
perfezionar da se. Ma anche le idee degli animali sono acquisite, nè essi sono
perfettibili. Distrutta colle idee innate l’idea della perfezione assoluta, e
sostituitale la relativa, cioè quello stato ch’è perfettamente conforme alla
natura di ciascun genere di esseri, si viene a rinunziare alle pazze idee d’incremento
di perfezione, di acquisto di nuove buone qualità (che non sono più buone per
se stesse come si credevano), di perfezionamento modellato sopra le false idee
del bene e del male assoluto ed assolutamente maggiore o minore; e si conclude
che l’uomo è perfetto qual egli è in natura, appena le sue facoltà hanno
conseguito quel tanto sviluppo che la natura gli ha primitivamente e decretato,
e indicato. E [1619]non può se non essere imperfetto in altro stato. Nè
la perfezione sua, o quella di verun altro genere, può mai crescere: bensì
quella dell’individuo ec.
(3.
Sett. 1821.)
Io non
credo che le mie osservazioni circa la falsità d’ogni assoluto, debbano
distruggere l’idea di Dio. Da che le cose sono, par ch’elle debbano avere una
ragion sufficiente di essere, e di essere in questo lor modo; appunto perch’elle
potevano non essere o esser tutt’altre, e non sono punto necessarie. Ego sum
qui sum, cioè ho in me la ragione di essere: grandi e notabili parole! Io
concepisco l’idea di Dio in questo modo. Può esservi una cagione universale di
tutte le cose che sono o ponno essere, e del loro modo di essere. - Ma la
cagione di questa cagione qual sarà? poich’egli non può esser necessario, come
voi avete dimostrato. - È vero che niente preesiste alle cose. Non preesiste
dunque la necessità. Ma pur preesiste la possibilità. Noi non possiamo concepir
nulla al di là della materia. Noi non possiamo dunque negare l’aseità,
benchè neghiamo la necessità di essere. Dentro i limiti della materia, e nell’ordine
di cose che ci è noto, [1620]pare a noi che nulla possa accadere senza
ragion sufficiente; e che però quell’essere che non ha in se stesso veruna
ragione e quindi veruna necessità assoluta di essere, debba averla fuor di se
stesso. E quindi neghiamo che il mondo possa essere, ed esser qual è, senza una
cagione posta fuori di lui. Sin qui nella materia. Usciti della materia ogni
facoltà dell’intelletto si spegne. Noi vediamo solamente che nulla è assoluto
nè quindi necessario. Ma appunto perchè nulla è assoluto, chi ci ha detto che
le cose fuor della materia non possano esser senza ragion sufficiente? Che
quindi un Essere onnipotente non possa sussister da se ab eterno, ed aver fatto
tutte le cose, bench’egli assolutamente parlando non sia necessario? Appunto
perchè nulla è vero nè falso assolutamente, non è egli tutto possibile, come
abbiamo provato altrove?
Io
considero dunque Iddio, non come il migliore di tutti gli esseri possibili,
giacchè non si dà migliore nè peggiore assoluto, ma come racchiudente in se
stesso tutte le possibilità, ed esistente in tutti i modi possibili. Questo [1621]è
possibile. I suoi rapporti verso gli uomini e verso le creature note, sono
perfettamente convenienti ad essi; sono dunque perfettamente buoni, e
migliori di quelli che vi hanno le altre creature, non assolutamente, ma perchè
i rapporti di queste sono meno perfettamente convenienti. Così resta in piedi
tutta la Religione, e l’infinita perfezion di Dio, che si nega come assoluta,
si afferma come relativa, e come perfezione nell’ordine di cose che noi
conosciamo, dove le qualità che Dio ha verso il mondo, sono relativamente a
questo, buone e perfette. E lo sono, tanto verso il nostro ordine di cose universale,
quanto verso i particolari ordini che in esso si contengono, e secondo le loro
differenze subalterne di natura. La quistione allora viene ad esser di parole.
Verso un
altro ordine di cose Iddio può aver de’ rapporti affatto diversi, e anche
contrari, ma perfettamente buoni in relazione a detti ordini, perocch’egli
esiste in tutti i modi possibili, e quindi perfettamente conviene con tutte l’esistenze,
e quindi è sostanzialmente e perfettamente buono in tutti gli ordini di bontà,
quantunque contrari fra loro, perchè può esser buono in una maniera di essere,
quel che è cattivo in un altro.
[1622]Questo non solo non guasta nè muta
l’idea che noi abbiamo di Dio, ma anzi ella, se la considerassimo bene,
comprende questa nozione necessariamente. Come può egli essere infinito se non
racchiude tutte le possibilità? Come può egli essere infinitamente perfetto
anzi pure perfetto, s’egli non lo è se non in quel modo che per noi è
perfezione? Sono o no possibili altri ordini infiniti di cose, e altri modi di
esistere? Dunque s’egli è infinito, esiste in tutti i modi possibili. Dipendeva
o no dalla sua volontà il farci affatto diversi? e l’averci fatto quali siamo?
Dunque egli ha potuto e può fare altri ordini diversissimi di cose, e aver con
loro que’ rapporti di quella natura che vuole. Altrimenti egli non sarà l’autor
della natura, e torneremo per forza al sogno di Platone, che suppone le idee
e gli archetipi delle cose, fuori di Dio, e indipendenti da esso. S’elle
esistono in Dio, come dice S. Agostino, (v. p.1616.) e se Dio le ha fatte, non
abbraccia egli dunque quelle sole forme secondo cui ha fatto le cose che noi
conosciamo, ma tutte le forme possibili, e racchiude tutta la possibilità, e
può far cose [1623]di qualunque natura gli piaccia, ed aver con
loro qualunque rapporto gli piaccia, anche nessuno ec.
L’infinita
possibilità che costituisce l’essenza di Dio, è necessità. Da che le cose
esistono, elle sono necessariamente possibili. (Una sola e menoma cosa che oggi
esistesse basterebbe a dimostrare che la possibilità è necessaria ed eterna.)
Se nessuna affermazione o negazione è assolutamente vera, dunque tutte le cose
e le affermazioni ec. sono assolutamente possibili. Dunque l’infinita
possibilità è l’unica cosa assoluta. Ell’è necessaria, e preesiste alle cose.
Quest’esistenza non l’ha che in Dio. Quest’ultimo pensiero merita sviluppo. V.
p.1645. capoverso 1.
(3.
Sett. 1821.)
Circa le
differenti qualità che i diversi organi percepiscono negli oggetti, come
altrove dissi, v. Dutens. par.1. cap.3. §.40. e tutto quel capo.
(3.
Sett. 1821.)
Si
sfuggono le buone opere comandate dal dovere, e si fanno di buona voglia quelle
che si fanno per propria volontà. I contadini contrastano al padrone ciò che
possono, danno però volentieri agli amici, e spesso rubano a quello per donare
a questi, senza nessun profitto proprio.
Si danno
certe combinazioni di naturale [1624]o di circostanze, che distinguono
notabilmente un carattere dall’ordinario, senza molto o punto innalzarlo o
abbassarlo al disopra, o al disotto degli altri.
(4.
Sett. 1821.)
La legge
naturale varia secondo le nature. Un cavallo che non è carnivoro, giudicherà
forse ingiusto un lupo che assalga e uccida una pecora, l’odierà come
sanguinario, e proverà un senso di ribrezzo, e d’indignazione abbattendosi a
vedere qualche sua carnificina. Non così un lione. Il bene e il male morale non
ha dunque nulla di assoluto. Non v’è altra azione malvagia, se non quelle che
ripugnano alle inclinazioni di ciascun genere di esseri operanti: nè sono
malvage quelle che nocciono ad altri esseri, mentre non ripugnino alla natura
di chi le eseguisce.
(4.
Sett. 1821.)
Alla p.1602. Gli antichi
intendevano molto bene questa verità che dovrebb’essere il fondamento della
scienza medica. I greci quasi autori della medicina dicevano ŽsJ¡neia, cioè debolezza ogni genere d’infermità, ed ŽsJeneÝn l’esser
malato. Ed anche oggi i medici chiamano con termine greco stenia
(sarebbe sJ¡neia) che suona, come sJ¡now, vigore, [1625]forza, robustezza,
il buono stato di salute. …Er=vmai, inf. ¢r=ÇsJai prospera utor
valetudine, non significa propriamente altro se non esser forte, da =Ånnumi confirmor,
corroboror. Così eérvstÛa sanitas,
bona valetudo, e i contrari, Žr=vtÛa, adversa valetudo, morbus, r=vstow aegrotus, Œr=vst¡v aegroto, Œr=Åsthma aegrotatio, aegritudo, morbus. Così dico delle
parole latine valere, valetudo, bene o male valere, infirmus,
imbecillitas ec. ec. V. i Diz. Tutto ciò che ci cagiona il senso della
forza, ci cagiona il senso del piacere e della sanità. L’uomo veramente forte è
sano. Quanto la civiltà favorisca per sua natura la forza in genere e in
ispecie, facilmente si vede alla bella prima.
(4. Sett. 1821.)
Non
attribuiamo a Dio se non un solo modo di esistere, e una sola perfezione. Ma se
niuna perfezione è assoluta, egli non sarà dunque perfetto, avendo questa sola.
L’unica perfezione assoluta, è di esistere in tutti i possibili modi, ed in
tutti esser perfetto, cioè perfettamente conveniente, dentro la natura [1626]e
la proprietà di quel modo di essere. La perfezione assoluta abbraccia tutte le
possibili qualità, anche contrarie, perchè non v’è contrarietà assoluta, ma
relativa: e se è possibile un modo di essere contrario a quello che noi
concepiamo in Dio e nelle cose a noi note (che certo è possibile, non essendovi
ragione assoluta e indipendente che lo neghi), Iddio non sarebbe nè infinito nè
perfetto, anzi imperfettissimo, s’egli non esistesse anche in quel modo, e non
fosse in perfetta relazione e convenienza con quel modo di essere. Noi dunque
non conosciamo se non una sola parte dell’essenza di Dio, fra le infinite, o
vogliamo dire una sola delle infinite sue essenze. Egli ha precisamente le
perfezioni che noi gli diamo: egli esiste verso noi in quel modo che la
religione insegna; i suoi rapporti verso noi, sono perfettamente quali denno
essere verso noi, e quali richiede la natura del mondo a noi noto. Ma egli
esiste in infiniti altri modi, ed ha infinite altre parti, che non possiamo in
veruna maniera concepire, se non immaginandoci questo medesimo. La Religione
Cristiana è dunque interamente vera, e i miei non si oppongono, anzi
favoriscono i suoi dogmi. [1627]
(4.
Sett. 1821.)
La
Religion Cristiana rivela infatti molti attributi di Dio che passano affatto e
si oppongono all’idea che noi abbiamo dell’estensione del possibile. Iddio ce
gli ha voluti rivelare per assoggettar la nostra ragione ec. e ci ha rivelati
questi soli fra gl’infiniti. Essi (come il mistero della Trinità, dell’Eucaristia)
si oppongono fino al principio detto di contraddizione, che par l’ultimo principio
del raziocinio. La distinzione fra superiore e contrario alla ragione è
frivola. I detti misteri si oppongono dirittamente al nostro modo di concepire
e ragionare. Ciò però non prova che sieno falsi, ma che il nostro detto modo,
non è vero se non relativamente, cioè dentro questo particolare ordine di cose.
(4.
Sett. 1821.)
La mente
umana è di una capacità immensa. Ella s’innalza fino a Dio, arriva in certo
modo a conoscerlo, benchè non possa determinarlo. Il senso ch’ella prova in
questa contemplazione e considerazione, non è propriamente il disperar di
conoscere. Solamente ella conosce di non esser Dio, e ravvisa la diversità [1628]dell’essenza
ed esistenza fra Lui e se, come fra se e le altre creature. Anzi ella si sente
più simile, più capace d’immaginare e penetrare nel modo in cui Dio esiste, che
in quello delle altre creature. Queste espressioni non son temerarie. La
Religione insegna che l’uomo è uno specchio della Divinità, quasi unus ex
nobis.
(4.
Sett. 1821.)
La
disperazione, in quanto è mancanza, o piuttosto languore e insensibilità di
speranza, è un piacere per se, e perchè l’uomo non sentendo la speranza, appena
sente la vita, e la sua anima è abbandonata a una specie di torpore, benchè il
corpo possa essere in grande attività, e spesso in tal circostanza lo sia.
Tutto ciò risulta dalla mia teoria del piacere.
(4.
Sett. 1821.)
Forza
dell’assuefazione generale. Le impressioni de’ sensi sono sempre
vivissime ne’ fanciulli. L’uomo ci si avvezza, ed elle perdono in forza e
durata. Ma non si avvezza solamente ad una per una. Un’impressione tanto nuova
per un uomo quanto la più nuova che possa provare un fanciullo, fa meno effetto
in quello che in questo: perchè quegli è avvezzo alle [1629]impressioni.
Quanto più l’uomo (in proporzione delle circostanze individuali) è avvezzo alle
novità, tanto l’impressione delle novità è per lui meno forte e durevole: e
finalmente gli farà maggiore impressione la monotonia ec. che la novità. E pur
nessuno può essere avvezzo a una nuova impressione in particolare; ma l’uomo si
avvezza alle nuove impressioni in generale. ec. ec.
(4.
Sett. 1821.)
Ho detto
che dilatandosi le nazioni, le lingue si dividono. Ciò principalmente accade
nel volgo, perchè il volgo di un luogo, poco o nessun commercio conserva con
quello di un altro, benchè nazionale. Le altre classi ve lo conservano o
immediato o mediato, per la civiltà che gli unisce, le scritture ec. ec. 1.
quanto più una nazione è nazione, e per ispirito e per istato politico, 2.
quanto più il volgo è in commercio colle altre classi della stessa popolazione,
3. colle altre popolazioni nazionali, 4. quanto più una nazione, ed in essa il
volgo, è civile, 5. quanto più i costumi, i caratteri ec. sono per conseguenza
conformi, sì nel volgo che nelle altre classi; tanto i dialetti vernacoli sono
minori di numero, e meno distinti di forma, ec. Applicate queste osservazioni
all’Italia, alla Francia, Inghilterra, Germania ec.
Così
può ragionarsi anche delle nazioni [1630]tutte intere, rispetto alle
altre nazioni.
(4.
Sett. 1821.)
Gli
ammaestramenti che si danno ordinariamente agli animali che ci servono, e ch’essi
apprendono benissimo, con maggiore o minor prontezza, secondo i generi, gl’individui
e le circostanze (come cavalli, cani ec.) e con sufficientissimo
raziocinio, (come il cane che s’arresta nel bivio, aspettando che il padrone
scelga la sua strada); e quelli che si danno ad altri animali per solo piacere,
come ad orsi, scimie, gatti, cani, topi, e fino alle pulci, come s’è veduto
ultimamente; dimostrano che la suscettibilità ed assuefabilità a cose non
naturali, non è propria esclusivamente dell’uomo, ma solo in maggior grado,
generalmente parlando: perchè vi sarà qualche uomo meno assuefabile, ed
ammaestrabile di una scimia.
Quanto
la specie umana oggidì sia vicina a quella stessa perfezione relativa alla
ragione, di cui si mena sì gran vanto, vedi il capo 11. di Wieland, Storia
del saggio Danischmend e dei tre Calender, o l’Egoista [1631]ed
il Filosofo. Milano. Scelta Raccolta di Romanzi. Batelli e Fanfani. vol.25.
(5.
Sett. 1821.)
La
memoria dipendendo dalle assuefazioni particolari, e dalla generale, e quasi
non esistendo (come si vede ne’ fanciulli) senza queste, può considerarsi come
facoltà presso a poco acquisita.
(5.
Sett. 1821.)
Chi vuol
vedere l’effetto della civiltà sul vigore del corpo, paragoni gli uomini civili
ai contadini o ai selvaggi, i contadini d’oggi a ciò che noi sappiamo del
vigore antico. ec. (Omero, com’è noto, assai spesso chiama l’età sua degenerata
dalle forze de’ tempi troiani.) Osservi di quanto è capace il corpo umano,
vedendo l’impotenza nostra assoluta di far ciò che fa il meno robusto de’
villani; i pericoli a cui noi ci esporremmo volendo esporci a qualcuno de’ loro
patimenti; le vergognose usanze quotidiane di fuggir l’aria il sole ec. di
maravigliarsi come il tale o tale abbia potuto affrontarlo per questa o quella
circostanza; le malattie o incomodi che tutto giorno si pigliano per un [1632]menomo
strapazzo del corpo, o fatica di mente ec. e poi dica se la civiltà rafforza l’uomo;
accresce la sua capacità e potenza; se gli antichi si maraviglierebbero o no
della impotenza nostra; se la natura stessa se ne debba o no vergognare; e se
noi medesimi non lo dobbiamo, vedendo sotto gli occhi per l’una parte di quanto
sia capace il corpo umano, senza veruno sforzo straordinario, e per l’altra di
quanto poco sia capace il nostro.
(5.
Sett. 1821.)
Si suol
dire che tutte le cose, tutte le verità hanno due facce diverse o contrarie,
anzi infinite. Non c’è verità che prendendo l’argomento più o meno da lungi, e
camminando per una strada più o meno nuova, non si possa dimostrar falsa con
evidenza ec. ec. ec. Quest’osservazione (che puoi molto specificare ed
estendere) non prova ella che nessuna verità nè falsità è assoluta, neppure in
ordine al nostro modo di vedere e di ragionare, neppur dentro i limiti della
concezione e ragione umana?
(5.
Sett. 1821.). V. p.1655. fine.
Non c’è
uomo così mal disposto e disadatto ad apprendere, o ad apprendere una
tal cosa, il quale lunghissimamente [1633]esercitato in qualsivoglia
disciplina ed attitudine o di mente o di mano ec. non la possieda o meglio, o
almeno altrettanto quanto il più grande ingegno ec. che incominci o da poco
tempo abbia cominciato ad esercitarvisi. Ecco la differenza degl’ingegni. Ad
altri bisogna più esercizio ad altri meno, ma tutti alla fine son capaci delle
stesse cose: e il più sciocco ingegno con ostinata fatica può divenire uno de’
primi matematici ec. del mondo.
(5.
Sett. 1821.)
Una
perfetta immagine degl’ingegni possono essere le complessioni. Chi nasce più
robusto e meglio disposto, chi meno. L’esercizio del corpo agguaglia il meno
robusto, al più robusto inesercitato. In parità d’esercizio, chi è nato debole
non potrà mai agguagliarsi a chi è nato robusto. Ma se a costui manca affatto l’esercizio,
egli, ancorchè nato il più robusto degli uomini, sarà non solo uguale, ma
inferiore al più debole degli uomini che abbia fatto notabile esercizio.
(Esempio dei Galli rispetto ai Romani. V. il Dionigi del Mai lib.14. c.17-19.
ed altri). [1634]Dal che segue che l’esercizio assolutamente parlando è
superiore alla natura, e principale cagione della forza corporale. (La natura
però avea dato all’uomo essenzialmente l’occasione e la necessità di esercitare
il suo corpo. Quindi l’esercizio essendo figlio della natura, lo è anche il
vigore e il ben essere che ne deriva. Lasciando che le generazioni de’ forti
sono pure naturalmente forti, siccome viceversa, benchè ancor qui si possa
notare il gran potere dell’esercizio.) Applicate queste considerazioni a
qualsivoglia facoltà mentale. Similmente ponno applicarsi alle altre facoltà
corporali (o sieno radicalmente naturali, o del tutto acquisite, ma bisognose
di una disposizione naturale) diverse dalla forza.
(5.
Sett. 1821.)
Si
potrebbe quasi dire che nell’uomo la sola fisonomia è propriamente bella o
brutta. Certo è ch’ella contiene quasi tutto l’ideale della bellezza umana, e
quasi tutta la differenza essenziale che la nostra mente ritrova e sente fra la
bellezza umana in quanto bellezza, e tutti gli altri generi di bellezza. Un
uomo o donna di viso decisamente brutto non può mai parer bello, se non per
libidine e stimoli sensuali. Eccetto il caso molto frequente, che coll’assuefazione
e col tempo ec. quel viso che v’era parso brutto, vi paia bello o passabile.
Viceversa una persona di brutte forme e bel viso, potrà parer bella, forse
anche non [1635]potrà mai con pieno sentimento esser chiamata
brutta.
Osserva
che generalmente quando tu domandi: la tal persona è bella o brutta? e quando
tu o rispondendo, o spontaneamente neghi o affermi ec. intendi sempre del viso,
se altro non soggiungi, o distingui.
(5.
Sett. 1821.)
Un
corpo, essendo composto, dimostra l’esistenza di altre cose che lo compongano.
Ma siccome tutte le parti o sostanze materiali componenti la materia, sono
altresì composti, però bisogna necessariamente salire ad esseri che non sieno
materia. Così discorrono i Leibniziani per arrivare alle loro Monadi o Esseri
semplici e incorporei, (de’ quali compongono i corpi) e quindi all’Unità, ed al
principio di tutte le cose. Or dico io. Arrivate fino alla menoma parte o
sostanza materiale, e ditemi se potete, le parti o sostanze di cui questa si
compone, non sono più materia, ma spirito. Arrivate anche se potete, agli atomi
o particelle indivisibili e senza parti. Saranno sempre materia. Al di là non
troverete mica lo spirito ma il nulla. Affinate quanto volete l’idea della
materia, non oltrepasserete mai la [1636]materia. Componete quanto vi
piace l’idea dello spirito, non ne farete mai nè estensione, nè lunghezza ec.
non ne farete mai della materia. Come si può compor la materia di ciò che non è
materia? Il corpo non si può comporre di non corpi, come ciò che è di ciò che
non è: nè da questo si può progredire a quello, o viceversa. - Ma finchè la
materia è materia, ell’è divisibile e composta. - Trovatemi dunque quel punto
in cui ella si compone di cose che non sono composte, cioè non sono materia.
Non v’è scala, gradazione, nè progressione che dal materiale porti all’immateriale
(come non v’è dall’esistenza al nulla). Fra questo e quello v’è uno spazio
immenso, ed a varcarlo v’abbisogna il salto (che da’ Leibniziani giustamente si
nega in natura). Queste due nature sono affatto separate e dissimili come il
nulla da ciò che è; non hanno alcuna relazione fra loro; il materiale non può
comporsi dell’immateriale più di quello che l’immateriale del materiale; e dall’esistenza
della materia (contro ciò che pensa Leibnizio) non si può argomentare quella
dello spirito più di quello che dall’esistenza dello spirito si potesse
argomentare quella della materia. V. Dutens, par.2. tutto il capo 1.
(5.
Sett. 1821.)
[1637]Dal detto in altri pensieri risulta
che Dio poteva manifestarsi a noi in quel modo e sotto quell’aspetto che
giudicava più conveniente. Non manifestarsi, come ai Gentili; manifestarsi
meno, e in forma alquanto diversa, come agli Ebrei; più, come a’ Cristiani: dal
che non bisogna concludere ch’egli ci si è manifestato tutto intero, come noi
crediamo. Errore non insegnato dalla Religione, ma da’ pregiudizi che ci fanno
credere assoluto ogni vero relativo. La rivelazione poteva esserci e non
esserci. Ella non è necessaria primordialmente, ma stante le convenienze
relative, originate dal semplice voler di Dio. Egli si nascose a’ Gentili,
rivelossi alquanto agli Ebrei, manifestò al mondo una maggior parte di se,
nella pienezza de’ tempi, cioè quando gli uomini furono in istato di meglio
comprenderlo. Egli si è rivelato perchè ha voluto e l’ha stimato conveniente, e
quanto e come e sotto la forma che ha stimato conveniente, secondo le diverse
circostanze delle sue creature: forma sempre vera, perch’egli esiste in tutti i
modi possibili.
Da ciò
che si è detto della legge pretesa naturale, risulta che non vi è bene nè [1638]male
assoluto di azioni; che queste non son buone o cattive fuorchè secondo le
convenienze, le quali sono stabilite, cioè determinate dal solo Dio, ossia,
come diciamo, dalla natura; che variando le circostanze, e quindi le
convenienze, varia ancor la morale, nè v’è legge alcuna scolpita
primordialmente ne’ nostri cuori; che molto meno v’è una morale eterna e
preesistente alla natura delle cose, ma ch’ella dipende e consiste del tutto
nella volontà e nell’arbitrio di Dio padrone sì di stabilire quelle determinate
convenienze che voleva, sì di ordinare o proibire espressamente agli esseri
pensanti quello che gli piaccia, secondo gli ordini e le convenienze da lui
solo create; che Dio non ha quindi nè può avere alcuna morale, il che non
potrebb’essere, se non ammettendo le idee di Platone indipendenti da Dio, e i
modelli eterni e necessari delle cose; che la morale per tanto è creata da lui,
come tutto il resto, e ch’egli era padrone di mutarla a tenore delle diverse
circostanze del genere umano, siccome è padrone di darne una tutta diversa, e
anche contraria, o anche non darne alcuna, a un diverso genere di esseri, sì
dentro gli ordini noti delle cose (come agli abitanti d’altri [1639]pianeti),
sì in altri sconosciuti, ed ugualmente possibili e verisimili. Da tutto ciò
resta spiegata la differenza fra la legge che corse prima di Mosè, quella di
Mosè, e quella di Cristo. Tutti dicono che il Cristianesimo ha perfezionata la
Morale. (Ciò stesso vuol dire ch’ella non è dunque innata.) Mutiamo i termini.
Non l’ha perfezionata, ma rinnovata, cioè perfezionata solo relativamente allo
stato in cui la società umana era ridotta, e da cui (quanto al sostanziale) non
poteva più tornare indietro, come non ha fatto. Allora divenne conveniente la nuova morale, ossia la legge di Cristo, legge che doveva essere perpetua per la detta
ragione; legge che ha fatto illecito realmente ciò che prima era lecito, e
viceversa, come agevolmente si può vedere confrontando i costumi naturali di
qualsivoglia o uomo isolato, o società, e degli Ebrei prima di Mosè, con la
legge contenuta nel Pentateuco, e questa e quelli con la legge del Vangelo.
Giacchè queste due leggi non si restringono di gran lunga al Decalogo, il quale
intanto è rimasto immutabile, in quanto contenendo i primissimi [1640]elementi
della morale, è perciò appunto applicabile e conveniente a tutti i possibili
stati della società umana, che non può sussistere, senza una morale, e
questa non può aver fondamento vero se non in Dio. Però il Decalogo combina
appresso a poco colla sostanza e collo spirito delle leggi scritte di tutti i
savi legislatori antichissimi e modernissimi, e colle leggi praticate anche da’
più rozzi popoli, che pur compongano una società. L’uomo poteva esser fatto
diversamente, ma è fatto realmente in modo, che formando società co’ suoi
simili, gli divien subito necessaria una legge il cui spirito sia quello del
Decalogo. Vale a dire che il Decalogo contiene i principii generali delle
convenienze delle azioni in una società umana, pel bene di essa. Il generale
contiene tutti i particolari: ma questi sono infiniti e diversissimi. Le
convenienze loro rispetto alle azioni, variano secondo gli stati delle società,
e della società in genere. L’antica legge Ebraica permetteva il concubinato,
fuorchè colle donne forestiere ec. L’odio del nemico costituiva lo spirito
delle antiche nazioni. Ecco le leggi di Mosè tutte patriottiche, ecco
santificate [1641]le invasioni, le guerre contro i forestieri, proibite
le nozze con loro, permesso anche l’odio del nemico privato. E Gesù comandando
l’amor del nemico, dice formalmente che dà un precetto nuovo. Come ciò, se la
morale è eterna e necessaria? Come è male oggi, quel ch’era forse bene ieri? Ma
la morale non è altro che convenienza, e i tempi avevano portato nuove
convenienze. Questo discorso potrebbe infinitamente estendersi generalizzando
sullo stato del mondo antico e moderno, e sulla differente morale adattata a
questi diversi stati. L’uomo isolato non aveva bisogno di morale, e nessuna ne
ebbe infatti, essendo un sogno la legge naturale. Egli ebbe solo dei doveri d’inclinazione
verso se stesso, i soli doveri utili e convenienti nel suo stato. Stretta la
società, la morale fu convenienza, e Dio la diede all’uomo appoco appoco, o
piuttosto ora una ora un’altra, secondo i successivi stati della società: e
ciascuna di queste morali era ugualmente perfetta, perchè conveniente; e
perfetto è l’uomo isolato, senza morale. La morale cristiana sarebbe stata
imperfetta perchè sconveniente per Abramo, [1642]e per Mosè. ec. Ciò che
dicono i Teologi delle azioni fatte lecite da un particolare impulso dello
Spirito Santo, non dimostra egli chiaro che la morale dipende da Dio (siccome
la convenienza), e che Dio non dipende punto dalla morale?
A me
pare che il mio sistema appoggi il Cristianesimo in luogo di scuoterlo; anzi
che egli n’abbia bisogno, e in certo modo lo supponga. Nè fuori del mio sistema
si ponno facilmente accordare le parti in apparenza discordantissime e
contraddittorie della religione Cristiana non solo quanto ai misteri, ma alla
legge, alla storia successiva della religione, ai dogmi d’ogni genere ec.
La fede
nostra fa guerra alla ragione. Io dimostro l’impotenza assoluta ed essenziale della ragione, non solo in ordine alla felicità umana, al conservare ec. la
società, allo stabilire e mantenere una morale, ma alla stessa facoltà di
ragionare e concepire.
La
pluralità de’ mondi, quasi fisicamente dimostrata, come si può accordare col
Cristianesimo fuori del mio sistema, il quale dimostra che le creature possono
esser d’infinite specie, e che Dio esistendo verso noi come la religione
insegna, [1643]esiste ancora in tutti i possibili modi, e può avere
avuto ed avere con diversissime creature, diversissimi e contrari rapporti, e
non averne alcuno? Quante verità fisiche, metafisiche ec. ripugnano alla
religione, fuori del mio sistema che nega ogni verità e falsità assoluta,
ammettendo le relative, e in queste la religione?
Il mio
sistema abbracciando e ammettendo quasi tutto il sistema dell’ateismo, negando
tutti i sistemi ec. e pur facendone risultare l’idea costante di Dio,
religione, morale ec. mi par l’ultima e decisiva prova della religione; o se
non altro che non può per ragioni esser dimostrata falsa quella rivelazione,
che d’altronde avendo prove di fatto, si deve tenere per vera, perchè il fatto
nel mio sistema decide, e la ragione non se gli può mai opporre.
Ma, se
Dio è superiore alla morale, se il buono o cattivo non esiste assolutamente ec.
Dio non può egli ingannarci in ciò che ci ha rivelato, promesso, minacciato
ec.? - No, perch’egli ci vieta d’ingannare. La legge ch’egli ci ha data, quel
modo del suo essere ch’egli ci ha [1644]manifestato, la maniera in cui l’ha
fatto, i rapporti che ha preso con noi, i doveri che ci ha prescritti verso
lui, verso i nostri simili, verso noi stessi, ciò che ci ha proibito, gl’insegnamenti
che ci ha dato, la verità che ci ha fatto amare, la natura in cui ci ha
formati, l’ordine di cose che ha stabilito, ec. decidono del modo in cui egli
deve portarsi verso noi, cioè ha voluto e vorrà portarsi, si è portato e
porterà. Altrimenti non sarebbero buoni i suoi rapporti verso noi, e quindi
egli non sarebbe buono o perfetto cioè conveniente ed in intera armonia
rispetto a noi, ed a quest’ordine di cose, che egli poteva bene tutt’altrimenti
costituire, ma ha costituito in questo tal modo in cui l’ingannare è male. Il
nostro modo, la nostra facoltà di ragionare è giusta e capace del vero, quando
si restringe all’ordine di cose che noi conosciamo o possiamo conoscere, e che
in qualche maniera ci appartiene, ed alle cose che vi hanno rapporto, in quanto
ve lo hanno. Io non distruggo verun principio della ragione umana (nè in quanto
alla morale, nè a tutto il resto): [1645]solamente li converto di
assoluti in relativi al nostro ordine di cose ec. La Religion Cristiana, come
ho già detto, resta tutta quanta in piedi (restano quindi i suoi effetti, le
sue promesse ec.), non come assolutamente vera, e necessaria indipendentemente
dalle cose quali sono, e dal modo in cui sono ec. ma relativamente, e
dipendentemente in origine dall’arbitrio di chi potendo stabilire e ordinar la
natura ben altrimenti, o non istabilirla ec. la stabilì però, ed in questa tal
guisa ec. Sicchè quanto a noi, quanto agli effetti ec. la cosa è tutt’una.
Da che
le cose sono, la possibilità è primordialmente necessaria, e indipendente da
checchè si voglia. Da che nessuna verità o falsità, negazione o affermazione è
assoluta, com’io dimostro, tutte le cose son dunque possibili, ed è quindi
necessaria e preesistente al tutto l’infinita possibilità. Ma questa non può
esistere senza un potere il quale possa fare che le cose sieno, e sieno in
qualsivoglia modo possibile. Se esiste l’infinita possibilità esiste l’infinita
onnipotenza, perchè se questa non esiste, quella non [1646]è vera.
Viceversa non può stare l’infinita onnipotenza senza l’infinita possibilità. L’una
e l’altra sono, possiamo dire, la stessa cosa. Se dunque è necessaria l’infinita
possibilità, preesistente al tutto, indipendente da ogni cosa, da ogni idea ec.
(ed infatti se non v’è ragione possibile perchè una cosa sia impossibile, ed
impossibile in un tal modo ec., la infinita possibilità è assolutamente
necessaria); lo è dunque ancora l’onnipotenza. Ecco Dio: e la sua necessità
dedotta dall’esistenza, e la sua essenza riposta nell’infinita possibilità, e
quindi formata di tutte le possibili nature. ec. Questa idea non è che
abbozzata. V. la p.1623.
(5-7.
Sett. 1821.)
Poniamo
che la classe possidente o benestante sia complessivamente alla classe povera o
laboriosa ec. come 1 a 10. Certo è nondimeno che per 30. uomini insigni e
famosi in qualsivoglia pregio d’ingegno ec. che sorgano nella prima classe,
appena uno ne sorgerà nell’altra, e quest’uno probabilmente sarà passato sin da
fanciullo nella prima, mediante favorevoli [1647]circostanze di
educazione ec. Scorrete massimamente le campagne (giacchè le città sviluppano
sempre alquanto le facoltà mentali anche dei poveri) e ditemi, se potete, il
tal contadino è un genio nascosto. E pur è certo che vi sono fra i contadini
tante persone proprie a divenir geni, quante nelle altre classi in proporzione
del numero rispettivo di ciascuna. E nessuna è più numerosa di questa. Che cosa
è dunque ciò che si dice, che il genio si fa giorno attraverso qualunque
riparo, e vince qualunque ostacolo? Non esiste genio in natura, cioè non esiste
(se non forse come una singolarità) nessuna persona le cui facoltà
intellettuali sieno per se stesse strabocchevolmente maggiori delle altrui. Le
circostanze e le assuefazioni col diversissimo sviluppo di facoltà non molto
diverse, producono la differenza degl’ingegni; producono specialmente il genio,
il quale appunto perchè tanto s’innalza sull’ordinario (il che lo fa riguardare
come certissima opera della natura); perciò appunto è figlio assoluto dell’assuefazione
ec.
[1648]Pare assurdo, ma è vero che l’uomo
forse il più soggetto a cadere nell’indifferenza e nell’insensibilità (e quindi
nella malvagità che deriva dalla freddezza del carattere), si è l’uomo
sensibile, pieno di entusiasmo e di attività interiore, e ciò in proporzione
appunto della sua sensibilità ec.
[2]
Massime s’egli è sventurato; ed in questi tempi dove la vita esteriore non
corrisponde, non porge alimento nè soggetto veruno all’interiore, dove la virtù
e l’eroismo sono spenti, e dove l’uomo di sentimento e d’immaginazione e di
entusiasmo è subito disingannato. La vita esteriore degli antichi era tanta che
avvolgendo i grandi spiriti nel suo vortice arrivava piuttosto a sommergerli,
che a lasciarsi esaurire. Oggi un uomo quale ho detto, appunto per la sua
straordinaria sensibilità, esaurisce la vita in un momento. Fatto ciò, egli
resta vuoto, disingannato profondamente e stabilmente, perchè ha tutto
profondamente e vivamente provato: non si è fermato alla superficie, non si va
affondando a poco a poco; è andato subito al fondo, ha tutto abbracciato, e
tutto rigettato come effettivamente indegno e frivolo: non gli resta altro a
vedere, [1649]a sperimentare, a sperare. Quindi è che si vedono gli
spiriti mediocri, ed alcuni sensibili e vivi sino a un certo segno, durar lungo
tempo ed anche sempre, nella loro sensibilità, suscettibili di affetto, capaci
di cure e di sacrificj per altrui, non contenti del mondo, ma sperando di
esserlo, facili ad aprirsi all’idea della virtù, a crederla ancora qualche cosa
ec. (Essi non hanno ancora perduto la speranza della felicità). Laddove quei
grandi spiriti che ho detto, fin dalla gioventù cadono in un’indifferenza,
languore, freddezza, insensibilità mortale, e irrimediabile: che produce un
egoismo noncurante, una somma incapacità di amare ec. La sensibilità e l’ardore
dell’animo è così fatto, che s’egli non trova pascolo nelle cose circostanti,
consuma se stesso, e si distrugge e perde in poco d’ora, lasciando l’uomo tanto
al disotto della magnanimità ordinaria, quanto prima l’avea messo al disopra.
Laddove la mediocre sensibilità si mantiene, perchè abbisogna di poco alimento.
Quindi è che le virtù grandi non sono pe’ nostri tempi. [1650]
(7.
Sett. 1821.). Puoi vedere p.1653. fine.
Quanto l’immaginazione
contribuisca alla filosofia (ch’è pur sua nemica), e quanto sia vero che il
gran poeta in diverse circostanze avria potuto essere un gran filosofo,
promotore di quella ragione ch’è micidiale al genere da lui professato, e
viceversa il filosofo, gran poeta, osserviamo. Proprietà del vero poeta è la
facoltà e la vena delle similitudini. (Omero poiht¯w n’è il più grande e fecondo
modello). L’animo in entusiasmo, nel caldo della passione qualunque ec. ec.
discopre vivissime somiglianze fra le cose. Un vigore anche passeggero del
corpo, che influisca sullo spirito, gli fa vedere dei rapporti fra cose
disparatissime, trovare dei paragoni, delle similitudini astrusissime e
ingegnosissime (o nel serio o nello scherzoso), gli mostra delle relazioni a
cui egli non aveva mai pensato, gli dà insomma una facilità mirabile di
ravvicinare e rassomigliare gli oggetti delle specie le più distinte, come l’ideale
col più puro materiale, d’incorporare vivissimamente il pensiero il più
astratto, di ridur tutto ad immagine, e crearne delle più nuove e vive che si
possa credere. Nè ciò solo mediante espresse similitudini o paragoni, ma col
mezzo di epiteti nuovissimi, di metafore arditissime, di parole contenenti esse
sole una similitudine ec. Tutte facoltà del gran poeta, e tutte contenute e
derivanti dalla facoltà di scoprire i rapporti delle cose, anche i menomi, e più
lontani, anche delle cose che paiono le meno analoghe ec. Or questo è tutto il
filosofo: facoltà di scoprire e conoscere i rapporti, di legare insieme i
particolari, e di generalizzare. (7 Sett. 1821.). V. [1651]p.1654.
principio.
Qual
cosa è più potente nell’uomo, la natura o la ragione? Il filosofo non vive mai
nè pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo riguarda, nè vive con se stesso
(se anche vivesse cogli altri) da vero filosofo; nè il religioso da vero e
perfetto religioso. Non v’è uomo così certo della malizia delle donne ec. che
non senta un’impressione dilettevole, e una vana speranza all’aspetto di una
beltà che gli usi qualche piacevolezza. (Meno impressione, e forse anche niuna,
potrà provarne chi vi sia troppo avvezzo, e questo sarà principalmente il caso
dell’uomo di mondo, la cui anima allora si porterà più filosoficamente assai di
quella del maggior filosofo, non già per forza di ragione, ma di natura che ha
dato all’assuefazione la proprietà d’illanguidire e anche distruggere le sensazioni.
Massime se il filosofo non vi sarà assuefatto. Tanto più egli sarà soggetto a
peccare o coll’opera o col pensiero contro i principii suoi.) Egli è sempre più
o meno soggetto a ricadere in tutte le stravagantissime illusioni dell’amore,
ch’egli ha conosciuto e sperimentato impossibile, immaginario, vano. Non v’è
uomo così profondamente persuaso della nullità delle [1652]cose, della
certa e inevitabile miseria umana, il cui cuore non si apra all’allegrezza
anche la più viva, (e tanto più viva quanto più vana) alle speranze le più
dolci, ai sogni ancora i più frivoli, se la fortuna gli sorride un momento, o
anche al solo aspetto di una festa, di una gioia della quale altri si degni di
metterlo a parte. Anzi basta un vero nulla per far credere immediatamente al
più profondo e sperimentato filosofo, che il mondo sia qualche cosa. Basta una
parola, uno sguardo, un gesto di buona grazia o di complimento che una persona
anche di poca importanza faccia all’uomo il più immerso nella disperazione
della felicità, e nella considerazione di essa, per riconciliarlo colle
speranze, e cogli errori. Non parlo del vigore del corpo, non parlo del vino,
al cui potere cede e sparisce la più radicata e invecchiata filosofia. Lascio
ancora le passioni, che se non altro, ne’ loro accessi si ridono del più lungo
e profondo abito filosofico. Un menomo bene inaspettato, un nuovo male ancora
che sopraggiunga, ancorchè piccolissimo, basta a persuadere il filosofo che la
vita umana non è un niente. V. Corinne t.2. liv.14. ch.1. pag. ult. cioè 341.
Ciò che dico del filosofo, dico pure del religioso, non ostante che la
religione, tenendo dell’illusione e quindi della natura, abbia tanta più forza effettiva
nell’uomo.
[1653]Il fanciullo non può contenere i
suoi desideri, o difficilmente, secondo ch’egli è più o meno assuefatto a
soddisfarli. L’uomo difficilmente concepisce un desiderio così vivo come il
menomo de’ fanciulli, e di tutti facilmente è padrone, benchè certo non abbia
cambiato natura, e la vita umana si componga tutta di desiderii, e l’uomo (o
l’animale) non possa vivere senza desiderare, perchè non può vivere senz’amarsi,
e questo amore essendo infinito, non può esser mai pago. Tutto dunque è
assuefazione nell’uomo. Questa osservazione si può estendere a tutte le
passioni e a tutte le parti esteriori ed interiori dell’uomo, e della sua vita.
(8.
Sett. 1821.)
Ho detto
altrove che il troppo produce il nulla, e citato le eccessive passioni e le
estreme sventure, il pericolo presente e inevitabile che dà una forza e
tranquillità d’animo anche al più vile, una disgrazia sicura e che non può
fuggirsi ec. che non producono già l’agitazione, ma l’immobilità, la stupidità,
una specie di rassegnazione non ragionata; in maniera che l’aspetto dell’uomo
in tali casi è bene spesso affatto simile a quello dell’indifferente: ed un
bravo pittore non lo farebbe distinguere dall’uomo il più noncurante ec.
eccetto per un’aria di meditazione stupida, ed una fissazione di occhi in
qualsivoglia parte. Aggiungo [1654]ora che ciò non si deve solamente
restringere all’atto, ma anche all’abito d’indifferenza, rassegnazione alla
fortuna, insensibilità ec. che è prodotto dall’estrema infelicità e
disperazione abituale ec. e puoi vedere la p.1648.
(8.
Sett. 1821.)
Alla
p.1650. fine. Io non veggo in questi pretesi progressi, (dello spirito umano)
da’ quali tiriamo tanta vanità, che una immensa catena, di cui alcuni
indicarono il metallo; altri, forse senza disegno, ne formarono gli anelli; I
PIÙ ACCORTI PERVENNERO FELICEMENTE A CONGIUNGERLI. La gloria, a dir vero,
sembra esser dovuta a questi: ma i primi ne hanno tutto il merito, o dovrebbero
averlo, se noi fossimo giusti. Dissertazione sopra i progressi delle arti del
Sig. Palissot de Montenoij (così trovo): pubblicata, credo, in Parigi, il 1756.
Sta appiè del 1. tomo Dutens, aggiuntaci dal traduttor francese: e nella
traduzione italiana Venez. 1789. Tommaso Bettinelli. t.1. p.209. Origine delle
scoperte attribuite a’ moderni del Sig. Lodovico Dutens.
(8.
Sett. 1821.)
[1655]L’uomo si addomestica alla continua
novità come alla uniformità, e allora l’oggetto nuovo gli è tanto familiare,
quanto un oggetto vecchio, e la novità in genere gli è più familiare e
ordinaria, che la uniformità. ec.
(8.
Sett. 1821.)
Il mio
sistema introduce non solo uno Scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che,
secondo il mio sistema, la ragione umana per qualsivoglia progresso possibile,
non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e
si dimostra che la nostra ragione, non può assolutamente trovare il vero se non
dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e
che non solo il dubbio giova a scoprire il vero (secondo il principio di
Cartesio ec. v. Dutens, par.1. c.2. §.10.), ma il vero consiste essenzialmente
nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere.
(8.
Sett. 1821.)
Alla
pagina 1632. fine. Quanti, anche profondissimi filosofi, furono o sono o
saranno intimamente persuasi di proposizioni affatto contrarie a quelle di cui
altri tali filosofi ec. [1656]sono o saranno o furono parimente persuasi
fino alla supposta evidenza! E ciò non solo nelle cose fisiche che dipendono
dall’esperienza, ma nelle astratte ec. ec. (8. Sett. 1821). Puoi vedere Corinne
t.2. liv.14. c.1. p.335. V. p.1690. fine.
Alla
p.1113. verso il fine. Si può notare che i verbi continuativi composti, cioè
con preposizione o comunque (come subvectare ec. ec.) ora sono
continuativi di altri verbi parimente composti (come di subvehere), ora
sono immediatamente composti dal continuativo semplice del verbo semplice.
[3]
E quindi ora hanno il significato analogo al continuativo del semplice, e
modificato dalla preposizione ec. ora sono continuativi del significato del
verbo composto che serve loro di positivo. Talvolta, anzi bene spesso hanno l’uno
e l’altro significato. P.e. subjectare, ora vale gittar di sotto in
su come composto di sub e jactare; ed ora sottoporre,
metter sotto, come formato da subiectus di subiicere. V.
Forcellini. (Quindi il nostro suggettare, soggettare, assoggettare ec.
franc. assujettir, spagn. sujetar, i quali però hanno un senso
ignoto alla buona latinità, e [1657]stanno propriamente per subiicere,
perduto nelle nostre lingue, come gettare, jeter ec. cioè jactare,
per iacere, e così molti altri continuativi.) Si trova anche in Corippo subjactare,
millantare, che non ha altro senso se non di sub e iactare,
di cui è composto. Del resto i detti continuativi composti possono 1. non avere
nessun composto che serva loro di positivo, o possa servire, 2. non avere
nessun continuativo del semplice, da cui possano derivare, come adlectare
da adlicere, non ha nessun continuativo del semplice lacere, da
cui possa esser composto ec. ec. ec. (8. Sett. 1821.). Quanto ho detto de’
continuativi composti si applichi pure ai frequentativi composti.
Tutto è
materiale nella nostra mente e facoltà. L’intelletto non potrebbe niente senza
la favella, perchè la parola è quasi il corpo dell’idea la più astratta. Ella è
infatti cosa materiale, e l’idea legata e immedesimata nella parola, è quasi
materializzata. La nostra memoria, tutte le nostre facoltà mentali, non
possono, non ritengono, non concepiscono esattamente nulla, se non riducendo
ogni cosa a materia, in qualunque modo, ed attaccandosi sempre alla materia
quanto è possibile; e legando l’ideale col sensibile; e notandone i rapporti
più o meno lontani, e servendosi di questi [1658]alla meglio.
Piace
nelle donne una certa virilità non solo di corpo, anche d’animo, e parimente a
causa dello straordinario. Piace in esse anche la magnanimità, e questa piace
pure, tanto alle donne quanto agli uomini, negli uomini ancora; perchè anche in
essi è straordinaria, proporzionatamente parlando ec. Le sventure, le passioni,
la malinconia, i sacrifizi generosi, e più o meno eroici, ec. piacciono pure in
ambo i sessi e danno grazia ec. in parte per la compassione, ma in parte anche
per lo straordinario. Così le grandi virtù, o i grandi vizi ec.
(9.
Sett. 1821.)
L’assioma
de’ Leibniziani (se non erro) nihil in natura fieri per saltum, quella
gradazione continua con cui la natura assuefa le cose a diversissimi stati, e
nasconde il passaggio dall’inverno all’estate, ec. ec. ec. del che parla
Senofonte, tutto ciò non dimostra egli che tutta la natura è un sistema di
assuefazione? La gradazione importa l’assuefazione, e viceversa.
(9.
Sett. 1821.)
[1659]Alla p.1284. marg. - fine. Da
simili ragioni, nacque senza fallo la gran differenza che si scorge fra la
scrittura e la pronunzia delle lingue francese, inglese ec. Differenza chiamo
io, quando le lettere scritte si pronunziano tutto giorno diversamente dal
valore che è loro assegnato nel rispettivo alfabeto di ciascuna lingua, (Empire,
si pronunzia ampire. La e nell’alfabeto francese è a o e?
Perchè dunque scrivete e dovendo pronunziare a?) quando si scrivono
lettere che non si pronunziano (come in Wieland); quando altre si
omettono che si denno pronunziare. Questa differenza è imperfezione somma nella
scrittura di tali lingue. L’italiana e la spagnuola sono in ciò le più perfette
fra le moderne, forse perchè furono coltivate prima delle altre, e passarono in
mano delle persone istruite, quando erano ancor molli, e prima che il modo di
scriverle fosse già determinato dall’uso quotidiano degl’ignoranti e
negligenti. L’ortografia italiana era molto imperfetta, com’è naturale, ne’
trecentisti, e nello stesso Dante, Petrarca ec. V. Perticari. Del resto era ben
naturale che le lingue moderne nate dalla corruzione e dall’ignoranza, e in
tempi d’ignoranza, non si sapessero scrivere; non si trovassero nè sapessero
applicare i segni; [1660]si confondessero i suoni e i segni antichi co’
moderni; si seguitasse il costume di scrivere le parole in quel tal modo come
si scrivevano anticamente, benchè la pronunzia fosse cambiata, e la forma di
esse ec.; si pigliasse in prestanza l’ortografia degli antichi ne’ luoghi e ne’
casi alquanto dubbi ec. (come notano infatti degl’italiani che non essendo ben
formata l’ortografia nostra massime nel 400. e ne’ principii del 500, si
serviano della latina, e scrivevano p.e. et pronunziando e, vulgare,
letitia ec. ec. così mi pare che osservi il Salviati) e tutto ciò
producesse le imperfezioni che si trovano nelle ortografie straniere.
(9.
Sett. 1821.). V. p.1945. e 2458.
Quanto l’uomo
sia solito a giudicar di tutto assolutamente, e quanto perciò s’inganni,
vediamolo in cose ordinarie. Il giovane deride, accusa, non concepisce,
condanna i gusti, i pareri, i costumi, i desiderii ec. del vecchio, e
viceversa. Tutti due s’ingannano, e nel fatto loro hanno piena ragione. Così
dico di chi è appassionato, e di chi non lo è; di chi si trova in un tal caso,
e di chi non vi si trova. S’io fossi ne’ suoi panni farei certo o non farei
così: non comprendo come [1661]egli possa portarsi altrimenti.
Se foste ne’ suoi panni, lo comprendereste. Tutto giorno ci par facilissimo,
verissimo ec. quel ch’è impossibile, falsissimo ec. per chi si trova nel caso. A
chi consiglia non duole il capo (Crusca) dice il proverbio, e fa molto al
proposito.
(9.
Sett. 1821.)
Il
talento non è altro che facoltà d’imparare, cioè di attendere, e di assuefarsi.
Per imparare intendo anche le facoltà d’inventare, di pensare, di sentire, di
giudicare ec. Nessuno impara le sue proprie invenzioni, pensieri, sentimenti, o
i giudizi particolari ch’egli porta, ma impara a farlo, e non lo può fare se
non l’ha imparato, e se non ha acquistato con maggiore o minore esercizio e
copia di sensazioni, cioè di esperienze, queste tali facoltà, che paiono
affatto innate, e sono realmente acquisite più o meno facilmente. La nostra
mente in origine non ha altro che maggiore [1662]o minor delicatezza e
suscettibilità di organi, cioè facilità di essere in diversi modi affetta,
capacità, e adattabilità, o a tutti o a qualche determinato genere di
apprensioni, di assuefazioni, concezioni, attenzioni. Questa non è propriamente
facoltà, ma semplice disposizione. Nella mente nostra non esiste
originariamente nessuna facoltà, neppur quella di ricordarsi. Bensì ell’è
disposta in maniera che le acquista, alcune più presto, alcune più tardi,
mediante l’esercizio; ed in alcuni ne acquista (gli altri dicono sviluppa)
più, in altri meno, in alcuni meglio, in altri imperfettamente, in alcuni più,
in altri meno facilmente, in alcuni così, in altri così modificate, secondo le
circostanze, che diversificano quasi i generi di una stessa facoltà. Come una
persona di corporatura sveltissima ed agilissima, è dispostissima al ballo. Non
però ha la facoltà del ballo, se non l’impara, ma solo una disposizione a
poterlo facilmente e perfettamente imparare ed eseguire. Così dico di tutte le
altre facoltà ed abilità materiali. Nelle quali ancora, oltre la disposizione [1663]felice
del corpo, giova ancora quella della mente, e la facoltà acquisita di
attendere, di assuefarsi e d’imparare. Senza cui, gli organi esteriori i meglio
disposti alla tale o tale abilità, stentano bene spesso non poco ad
apprenderla, e conservarla.
Una
leggera stonazione in una musica non è capita dal volgo, come il fanciullo non
capisce i piccoli difetti della forma umana, e talora nemmeno i gravi. In una
musica alquanto astrusa, cioè per poco che gli accordi sieno inusitati, egli
non capisce neppure le grandi stonazioni, e così proporzionatamente accade alle
persone polite, e talvolta anche alle intendenti.
(10.
Sett. 1821.)
Ho detto
altrove che bisogna distinguere nella musica l’effetto dell’armonia, da quelli
del suono che non hanno a fare col bello, come non vi ha che fare il colore per
se stesso, non trattandosi di convenienza. Ho detto che quello che ha di
singolare l’effetto della musica sull’animo, appartiene in massima [1664]parte
al puro suono. Infatti qual differenza fra l’effetto di un suono, di uno
strumento dolce, penetrante, ec. ed un altro ruvido, non penetrante ec.
Analizzate bene l’effetto della musica sul vostro cuore, e vedrete che l’effetto
suo singolare deriva precisamente dalla natura del suono e varia secondo le di
lui differenze. L’armonia, la melodia la più melodiosa, o armonica, eseguita su
d’uno strumento vile, ec. in suoni rozzi ec. non vi tocca non vi muove, non v’innalza
punto. Ho conosciuto una persona che passava e si teneva essa stessa per
inarmonica, non essendo nè commossa nè dilettata da quasi veruna musica.
Frattanto egli notava che una stessa armonia eseguita in certi tali strumenti
lo toccava vivamente, in altri niente affatto. Egli amava molto, e provava
tutti gli effetti della musica, quando udiva suoni forti, di gran voce,
strumenti arditi, orchestre numerose, e strepitose. Quest’era dunque una
particolare disposizione de’ suoi organi, inclinati a que’ tali suoni, che lo
dilettavano: ovvero una rozzezza o poca delicatezza, bisognosa di suoni forti
per essere scossa. Questo diletto era dunque [1665]nella sostanza
dipendente dal suono, e indipendente dall’accordo, dall’armonia, e quindi dal
bello. Il suono dà piacere all’uomo, perchè la natura gli ha dato, o ha dato a
noi (e ad altri animali) questa proprietà. Così i cibi dolci, i colori vivi ec.
Tutto ciò non appartiene al bello, non essendo convenienza. V. p.1721.
capoverso 2.
Una
notabile sorgente di piacere nella musica è pur l’espressione, la
significazione, l’imitazione. Questo neppure spetta al bello, come ho detto in
proposito della fisonomia umana. Or questo è di tanto rilievo, che una musica
non significante non diletta se non gl’intendenti, i quali si fanno mediante l’assuefazione,
de’ particolari generi e fonti di piacere. E se l’uomo udendo una musica
espressiva o no, non l’applica seco stesso a qualche significazione, o se l’applica
ad una significazione che non le conviene, egli ne proverà o nessun diletto, o
minore proporzionatamente. Questo è costante e universale. E però gli animi non [1666]sensibili poco son dilettati dalla musica. Tanto è vero che il di
lei singolare effetto non deriva dall’armonia in quanto armonia, ma da cagioni
estranee alla essenza dell’armonia, e quindi alla teoria della convenienza, e
del bello.
(10.
Sett. 1821.)
Si dice
tutto giorno, aria di viso, fisonomia ec. e la tal aria è bella, la
tale no, e aria truce, dolce, rozza, gentile ec. ec. In maniera che bene
spesso non trovando difetto in nessuno de’ lineamenti, o non trovandovi pregio,
si trovano però difetti o pregi, bellezza o bruttezza nell’aria del viso.
Non è questa una prova che il bello o brutto della fisonomia, non dipende nella
principal parte dalla convenienza, ma dalla significazione, e quindi non è
propriamente bellezza nè bruttezza? Notate anche il nome di aria che si
è dato a questa significazione generale di una fisonomia, appunto perch’ella
consistendo in sottilissimi rapporti colle qualità non materiali dell’uomo, è
una cosa impossibile a determinarsi, e quasi aerea. [1667]Ond’è che i
giudizi differiscono intorno alla bellezza umana forse più che a qualunque
altra, quando parrebbe che dovesse accadere l’opposto. Aria ec. si
applica anche alle fisonomie non umane.
(10.
Sett. 1821.)
Vedi tu
un uomo o una donna? A qual parte corri subito? al viso, massime s’è di diverso
sesso. T’è nascosto il viso, e il personale o altro, ti par bello, o ti muove a
curiosità di conoscerla? tu non sei contento se non la miri in viso. Vedutolo,
ti par brutto? tu cangi subito il giudizio, e il senso, e mentr’ella ti parve
bella, ora ti par brutta. Ti parve brutta, e il viso ti par bello? nel tuo
giudizio ell’è divenuta bella. Tu non dici nè pensi di conoscere di veduta una
persona se tu non l’hai veduta in viso. Non così ti accade rispetto agli
animali. Tu non provi nessuno dei detti effetti. Tu non osservi che il corpo,
perchè nelle diverse fisonomie di una stessa specie, non trovi differenze. Tu
dici di conoscere un cavallo, se anche non l’hai [1668]veduto o almeno
osservato nel muso. Se n’hai visto il solo muso, non dici nè pensi di
conoscerlo, laddove tu pensi di conoscere una persona di cui non hai visto o
almeno osservato che il viso, come spesso accade. Un animale dipinto in maniera
che il muso non si veda, ti pare intero. Non così una persona. Tanto è vero che
per l’uomo la parte principale della forma umana è la fisonomia.
(10.
Sett. 1821.)
I contadini,
e tutte le nazioni meno civilizzate, massime le meridionali, amano e sono
dilettate soprattutto da’ colori vivi. Al contrario le nazioni civili, perchè
la civiltà che tutto indebolisce, mette in uso e in pregio i colori smorti ec.
Questo si chiama buon gusto. Perchè? come dunque si suppone che il buon gusto
abbia norme e modelli costanti, e invariabili? s’egli ci allontana dalla
natura, in che altra cosa stabile faremo noi consistere questo tipo, questa
norma? Non è questa oltracciò una prova che tutto è relativo, e dipende dall’assuefazione,
e circostanze, [1669]anche i piaceri, i gusti ec. che paiono i più
naturali, e spontanei? giacchè l’uomo polito, senza bisogno di alcuna
riflessione, si ride di un villano che stima far gran figura col suo gilet di scarlatto, e degli altri villani o villane che l’ammirano. E pure che
ragione naturale v’è di riderne? Le stesse nostre classi colte pochi anni sono,
quando erano meno o civilizzate o corrotte, avevano lo stesso gusto de’ nostri
villani, ma in assai maggior grado. Ora i colori amaranto, barbacosacco,
napoleone, ed altri simili mezzi colori sono di moda, e questo effetto si
attribuisce a piccole cagioni, ma in vero egli tiene alla natura generale dell’incivilimento.
(10.
Sett. 1821.)
La detta
osservazione è anche una prova dell’indebolimento che è sempre e in tutti i
sensi compagno ed effetto della civiltà.
(10.
Sett. 1821.)
Il
vedere che altri prova in nostra presenza un gusto vivo, ci è sempre grave, e
ci rende odiosa quella persona. E perciò è prudenza e creanza il non dimostrare
in presenza [1670]altrui di provare un piacere, o il portarsi con una
disinvoltura che mostri di non curarsene ec. Similmente dico di un vantaggio. E
v. un mio pensiero sul far carezze alla moglie in presenza altrui, e il costume
degl’inglesi che ho notato in questo proposito. Cosa spiacevolissima anche tra
noi, e che m’è avvenuto di sentir condannare come insopportabile in due sposi
che si facevano grandi carezze in presenza d’altri. Tanto è vero che l’uomo
odia naturalmente l’uomo. Eccetto se quel gusto che ho detto è stato
procacciato a quella persona da noi stessi volontariamente, nel qual
caso egli ridonda in certo modo su di noi, e serve alla nostra ambizione, ec.
insomma ne partecipiamo. Questo effetto si prova massimamente cogli eguali e co’
superiori (meno cogl’inferiori, co’ fanciulli ec.); ma cogli eguali
soprattutto, e cogli amici e stretti conoscenti più che mai, perocchè con
questi si esercita principalmente l’invidia, e si sente al vivo l’inferiorità
nostra ec. in qualsivoglia genere. I superiori sono il soggetto di un odio più
generale, che si stende su tutta la loro persona, [1671]condizione ec. e
discende meno, o è meno sensibile alle cose particolari, tanto più che non si
può entrare con essi in competenza di desiderii ec. Parimente riguardo agl’inferiori,
bisogna che i loro vantaggi o piaceri siano d’un alto grado (nel qual caso l’odio
è maggiore verso loro che verso qualunque altro) perchè arrivino a pungere il
nostro amor proprio, e la nostra gelosia ec. Nondimeno è vero che sempre se ne
prova qualche disgusto.
Le
teorie delle quali i romantici han fatto tanto romore a’ nostri giorni,
avrebbero dovuto restringersi a provare che non c’è bello assoluto, nè quindi
buon gusto stabile, e norma universale di esso per tutti i tempi e popoli; ch’esso
varia secondo gli uni e gli altri, e che però il buon gusto, e quindi la
poesia, le arti, l’eloquenza ec. de’ tempi nostri, non denno esser quelle
stesse degli antichi, nè quelle della Germania, le stesse che le francesi; che
le regole assolutamente parlando non esistono. Ma essi son andati più avanti,
hanno ricusato o male interpretato [1672]il giudizio e il modello della
stessa natura parziale, sola norma del bello; il fanatismo e la smania di
essere originali (qualità che bisogna bene avere ma non cercare) gli ha
precipitati in mille stravaganze; hanno errato anche bene spesso in filosofia,
ne’ principj, e nella speculativa non solo delle arti ec. ma anche della natura
generale delle cose, dalla quale dipendono tutte le teorie di qualsivoglia
genere. - Il primo poema regolare venuto in luce in Europa dopo il
risorgimento, dice il Sismondi, è la Lusiade (pubblicata un anno avanti la
Gerusalemme). Questo è detto abusivamente: per regolare, non si può intendere
se non simile a’ poemi d’Omero e di Virgilio. Regolare non è assolutamente
nessun poema. Tanto è regolare il Furioso, quanto il Goffredo. L’uno potrà
dirsi esclusivamente epico, l’altro romanzesco. Ma in quanto poemi tutti due
sono ugualmente regolari; e lo sono e lo sarebbero parimente altri poemi di
forme affatto diverse, purchè si contenessero ne’ confini della natura. I
generi ponno essere infiniti, e ciascun genere, [1673]da che è genere, è
regolare, fosse anche composto di un solo individuo. Un individuo non può essere
irregolare se non rispetto al suo genere o specie. Quando egli forma genere,
non si dà irregolarità per lui. Anche dentro uno stesso genere (come l’epico)
si danno mille specie, ed anche mille differenze di forme individuali. Qual
divario dall’Iliade all’Odissea, dall’una e l’altra all’Eneide. Pur tutti
questi si chiamano poemi epici, e potrebbero anche non chiamarsi. Anzi si
potrebbe dire che se l’Iliade è poema epico, l’Eneide non lo è, o viceversa.
Tutto è quistione di nomi, e le regole non dipendono se non dal modo in cui la
cosa è: non esistono prima della cosa, ma nascono con lei, o da lei.
(11.
Sett. 1821.)
L’uomo
inesperto del mondo, come il giovane ec. sopravvenuto da qualche disgrazia o
corporale o qualunque, dov’egli non abbia alcuna colpa, non pensa neppure che
ciò debba essere agli altri, oggetto di riso sul suo conto, di fuggirlo, di
spregiarlo, [1674]di odiarlo, di schernirlo. Anzi se egli concepisce
verun pensiero intorno agli altri, relativamente alla sua disgrazia, non se ne
promette altro che compassione, ed anche premura, o almen desiderio di
giovarlo; insomma non li considera se non come oggetti di consolazione e di
speranza per lui; tanto che talvolta arriva per questa parte a godere in certo
modo della sua sventura. Tale è il dettame della natura. Quanto è diverso il
fatto! Anche le persone le più sperimentate, ne’ primi momenti di una
disgrazia, sono soggette a cadere in questo errore, e in questa speranza,
almeno confusa e lontana. Non par possibile all’uomo che una sventura non
meritata gli debba nuocere presso i suoi simili, nell’opinione, nell’affetto,
ec. ma egli tien per fermissimo tutto l’opposto; e s’egli è inesperto non si
guarda di nascondere agli altri (potendo) la sua disgrazia; anzi talvolta cerca
di manifestarla: laddove la principale arte di vivere consiste ordinariamente
nel non confessar mai di esser [1675]disgraziato, o di avere alcuno
svantaggio rispetto agli altri ec.
Parimente
l’uomo inesperto (ed anche lo sperimentato, nella ebbrezza della gioia)
sopravvenuto da qualche fortuna, ed acquistato qualche vantaggio, crede
fermamente che tutti, e massime gli amici e i conoscenti debbano rallegrarsene
di tutto cuore, e neppur sospetta che ne l’abbiano a odiare, ch’egli sia per
perderne l’amicizia di questo o di quello, che gli stessi amici più cari,
debbano o tentar mille vie di spogliarlo del suo nuovo vantaggio, screditarlo
ec. o almeno desiderar di farlo, proccurar di scemare presso lui, presso loro
stessi, e presso gli altri l’idea e il pregio della sua nuova fortuna ec. Tutto
ciò, accadendo, come inevitabilmente accade, gli riesce maraviglioso.
(11.
Sett. 1821.)
Scire
nostrum est reminisci dicono i Platonici. Male nel loro intendimento, cioè che l’anima non
faccia che ricordarsi di [1676]ciò che seppe innanzi di unirsi al corpo.
Benissimo però può applicarsi al nostro sistema, e di Locke. Perchè infatti l’uomo,
(e l’animale) niente sapendo per natura ec. tanto sa, quanto si ricorda, cioè
quanto ha imparato mediante le esperienze de’ sensi. Si può dire che la memoria
sia l’unica fonte del sapere, ch’ella sia legata, e quasi costituisca tutte le
nostre cognizioni ed abilità materiali o mentali, e che senza memoria l’uomo
non saprebbe nulla, e non saprebbe far nulla. E siccome ho detto che la memoria
non è altro che assuefazione, nasce (benchè prestissimo) da lei, ed è contenuta
in lei, così vicendevolmente può dirsi ch’ella contiene tutte le assuefazioni,
ed è il fondamento di tutte, vale a dire d’ogni nostra scienza e attitudine.
Anche le materiali sono legate in gran parte colla memoria. Insomma siccome la
memoria è essenzialmente assuefazione dell’intelletto, così può dirsi che tutte
le assuefazioni dell’animale sieno quasi memorie proprie de’ respettivi organi
che si assuefanno.
(11.
Sett. 1821.). V. p.1697. principio.
[1677]I dolori negli uomini naturali sono
vivissimi, come si vede dagli atti e dalle azioni ch’essi ispirano, e
ispiravano agli antichi. Nondimeno si vede e si ammira negli uomini di campagna
una somma difficoltà (non solo di conservare lungo tempo il dolore, che questa
è propria naturalmente delle passioni veementissime) ma anche di concepirlo, e
sentirlo vivamente, e togliersi dal loro stato di abituale insensibilità.
Preparano i funerali delle loro mogli o figli, gli accompagnano alla chiesa,
assistono alla loro sepoltura, ridono un momento dopo, ne parlano con
indifferenza, di rado spargono qualche lacrima, benchè se il dolore talvolta li
coglie, esso sia tale qual dev’essere in persone poco lontane dalla natura. Nè
solo gli uomini di campagna, ma tutti coloro che appartengono alle classi
indigenti o laboriose ec. dimostrano gli stessi effetti. Ciò manifesta la
misericordia della natura, e dimostra che ella ha sibbene dato agli uomini
naturali, vivissimi e frequentissimi e facilissimi piaceri, ma contuttochè gli
abbia resi conseguentemente soggetti alla veemenza straordinaria [1678]del
dolore, non però, come parrebbe che dovesse essere, gli ha assoggettati alla
frequenza, nemmeno di un dolor moderato, e quale si prova sì spesso dagli uomini
civili. Parte la rozzezza del loro cuore, e il nessuno sviluppo (o piuttosto
analoga modificazione) delle facoltà produttrici del dolore, della sensibilità
ec.; parte la continua e viva distrazione prodotta nell’uomo naturale da’
bisogni, dalle fatiche, ec. ec. l’assuefazione a certe sofferenze ec. li
preserva dalla facilità di addolorarsi, gli addomestica alle disgrazie della
vita, li rende più disposti a godere che a soffrire, facili a dimenticare il
male, incapaci di sentirlo profondamente, se non di rado ec. Anche gli uomini
civili, abitualmente, o straordinariamente occupatissimi, sono nello stesso
caso. Così pure gli uomini avvezzi alle disgrazie ec. ec.
(11.
Sett. 1821.)
È noto
che anticamente il dittongo ae de’ latini scrivevasi e pronunziavasi alla
greca ai (v. i gramatici.) Or questa pronunzia e scrittura antichissima
l’italiano la conserva [1679]anche oggi nel latino vae, greco oéaÜ, ch’egli scrive e pronunzia guai,
mutato il v in gu, come in guado, guastare, da vadum
vastare. ec. I nostri contadini in alcune parti d’Italia dicono golpe,
(v. Monti, Proposta ec. in Golpe, dove senza bisogno lo deriva dal
francese) golo, sguelto, guerro per volpe, volo, svelto, verro
(porco non castrato, verres) ec. ec. E viceversa vardare, valchiera
per guardare, gualchiera ec. Noi diciamo vizzo e guizzo.
(Crusca.) I nostri antichi diceano vivore per vigore. (Crusca.)
Il déguiser franc. è corruzione di déviser (v. la Crusca in Divisato:
svisare è pur lo stesso, in rigore d’etimologia.) Non parlo della
pronunzia del w inglese ec. ec. ec.
L’italiano
il francese lo spagnuolo i quali parlano (massime l’italiano) poco
differentemente da quello che parlavano i latini, non perciò scrivono come i
latini scrivevano. Vale a dire che delle due lingue Romane distinte da
Cicerone, la rustica è sopravvissuta alla colta, l’una vive alterata, l’altra è
morta del tutto. Tanta è la tenacità del popolo, tanta la difficoltà di
conservare e [1680]perpetuare quello a cui la moltitudine non partecipa.
Questo però per le mutazioni de’ tempi per la barbarie, per la dimenticanza del
buono scrivere ec. quello, non solo si conservò per la tenacissima natura del
popolo, malgrado le tante vicende delle nazioni, influenze e inondazioni di
forestieri ec. ma s’introdusse anche, e resta in luogo del latino scritto. E il
ridurre a letteratura la lingua italiana ec. fu in certo modo un dare una
letteratura al rustico latino, essendo perduta l’altra letteratura del latino
colto. E malgrado gli sforzi fatti nel 400. e 500. per ravvivare questa
seconda, (e ciò tanto in Italia che altrove) ella s’è perduta, e l’altra s’è
propagata, accresciuta, e vive.
(12.
Sett. 1821.)
La
stessa nostra ragione è una facoltà acquisita. Il bambino che nasce non è
ragionevole: il selvaggio lo è meno dell’incivilito, l’ignorante meno dell’istruito:
cioè ha effettivamente minor facoltà di ragionare, tira più difficilmente la
conseguenza, e più difficilmente e oscuramente vede il rapporto fra le parti
del sillogismo il più chiaro. Vale a [1681]dire che non solo un’ignoranza
particolare gl’impedisce di vedere o capire questo o quello, ma egli ha una
minor forza generale di raziocinio, meno abitudine e quindi meno facilità e
capacità di ragionare, e quindi meno ragione. Giacchè non solo egli non
comprende questa o quella parte di un sillogismo, ma anche comprendendole a
perfezione tutte tre, (o le due premesse) separatamente, non ne vede il rapporto,
e non conosce come la conseguenza ne dipenda, ancorchè il sillogismo gli venga
formalmente fatto. La qual cosa non si può insegnare. Or questa è reale
inferiorità ed incapacità di ragione. V. p.1752. principio. Di questo genere
sono quelle teste che si chiamano dure e storte, e da queste cause viene la
rarità di quel senso che si chiama comune. Notate ch’io dico facoltà e non
disposizione. Distinsi altrove l’una dall’altra. La mente umana ha una
disposizione (ma per se stessa infruttuosa) a ragionare: essa per se non è
ragione, come ho spiegato in altro proposito con esempi; e questa disposizione
originariamente e riguardo al puro intelletto è tale che anche quanto ad essa l’uomo
primitivo affatto inesperto è poco o nulla superiore all’animale. Gli
organi suoi esteriori ec. che gli producono in pochi momenti un numero di
esperienze decuplo di quello che gli altri animali si possano proccurare, lo
mettono ben presto al di sopra degli altri viventi. L’esperienze [1682]riunite
di tutta una vita, poi quelle di molti uomini, e poi di molti tempi unite
insieme, onde nasce la favella, e quindi gl’insegnamenti ec. ec. hanno messo il
genere umano in lunghissimo tempo, e mettono giornalmente il fanciullo in
brevissimo tempo assai di sopra a tutti gli animali, e gli danno la
facoltà della ragione. L’uomo primitivo in età di sett’anni non era già
ragionevole, come oggi il fanciullo. Ne sa più il bambino che balbetta; ragiona
meglio, è più ragionevole, di quello che fosse l’uomo primitivo in età di vent’anni
ec. ec. ec. Questo si può confermare coll’esempio de’ selvaggi, i quali hanno
pur tuttavia molta e già vecchia società.
(12.
Sett. 1821.)
La
stessa adattabilità e conformabilità che ho detto esser singolare nell’uomo,
non è propriamente innata ma acquisita. Essa è il frutto dell’assuefazione
generale, che lo rende appoco appoco più o meno adattabile ed assuefabile. Di
lei non esiste originariamente nell’uomo, che una disposizione, la quale non è
già lei. L’uomo stenta moltissimo da principio ad assuefarsi, a prender [1683]questa
o quella forma, poi mediante l’assuefazione di farlo, appoco appoco se lo
facilita. Ciò si può vedere ne’ caratteri sociali. L’uomo che poco o nulla ha
trattato, o da gran tempo non suol trattare, stenta moltissimo, anzi non sa
punto accomodarsi al carattere, al temperamento, al gusto, al costume diverso
delle persone, de’ luoghi, de’ tempi, delle occasioni. Egli non è dunque punto
socievole. Viceversa accade all’uomo solito a praticare cogli uomini. Egli si
adatta subito al carattere il più nuovo ec. L’assuefazione deriva dall’assuefazione.
La facoltà di assuefarsi, dall’essersi assuefatto.
(12.
Sett. 1821.)
Perciò
appunto che la lingua francese non ammette se non il suo proprio (unico) stile,
esso è ammissibile (non però senza guastarlo, quando si faccia senza giudizio),
o certo più universalmente facile ad essere ammesso in tutte le lingue, che
qualunque altro. Perch’ella è incapace di traduzioni, ella è più facilmente di
qualunque altra, traducibile in tutte le lingue colte. Viceversa per le contrarie
ragioni [1684]accade proporzionatamente alle altre lingue, e sopra tutte
le moderne all’italiana, perch’ella sovrasta a tutte nella moltiplicità degli
stili, e capacità di traduzioni. Le altre lingue contengono in certo modo lo
stile francese, come un genere, il qual genere nella lingua francese è tutto.
Vero è che in questo tal genere ella primeggia di gran lunga su tutte le
antiche e moderne. Sviluppate e dichiarate questo pensiero: ed osservate che
infatti le bellezze le più minute della lingua francese si ponno facilmente
rendere; e com’ella abbia corrotto facilmente quasi tutte le lingue d’Europa,
ed insinuatavisi; laddove ella (quale ora e ridotta) non sarebbe stata certo
corrompibile da niun’altra, nemmeno in qualsivoglia circostanza si possa
immaginare.
(12.
Sett. 1821.)
Piace
naturalmente ed universalmente (anche a’ vecchi) la vivacità della fisonomia,
moti, espressioni, stile, costumi, maniere ec. ec. Che vuol dir ciò? Viene in
parte dallo straordinario, ma nella parte principale questo piacere è
indipendente dal bello: egli viene in ultima analisi da una inclinazione
(innata) della natura [1685]alla vita, ed odio della morte, e quindi
della noia, dell’inattività, e di ciò che l’esprime, come la melensaggine.
Inclinazione ed odio che si manifesta in mille altre parti della vita umana,
anzi in tutto l’uomo, anzi in tutta la natura. Bensì ella pur varia nelle
proporzioni, secondo i temperamenti, le circostanze, ec. e sarà piacevole, e
(come dicono) bella per costui una vivacità che sarà brutta per colui, bella
oggi, brutta domani, bella per una nazione, brutta per un’altra ec. ec. ec.
(12.
Sett. 1821.)
La
perfezione del Cristianesimo mette in pregio la solitudine e il tenersi lontano
dagli affari del mondo per fuggire le tentazioni. - Vale a dire per non far
male a’ suoi simili. - Bel mezzo di non far male, quello di non fare alcun
bene. Che utile può seguire da ciò? - Ma non si tratta solo di evitare il danno
de’ suoi simili. Il Cristiano fugge il mondo per non peccare in se stesso o
contro se stesso, cioè contro Dio. - Ecco quello ch’io dico, che il
Cristianesimo surrogando un altro mondo al presente, [1686]ed ai nostri
simili, ed a noi stessi un terzo ente, cioè Dio, viene nella sua perfezione,
cioè nel suo vero spirito a distruggere il mondo, la vita stessa individuale,
(giacchè neppur l’individuo è lo scopo di se stesso) e soprattutto la società,
di cui a prima vista egli sembra il maggior legame e garante. Che vantaggio può
venire alla società, e come può ella sussistere, se l’individuo perfetto non
deve far altro che fuggir le cose per non peccare? impiegar la vita in
preservarsi dalla vita? Altrettanto varrebbe il non vivere. La vita viene ad
essere come un male, come una colpa, come una cosa dannosa, di cui bisogna
usare il meno che si possa, compiangendo la necessità di usarne, e desiderando
esserne presto sgravato. Non è questa una specie di egoismo? simile a quello di
quei filosofi (e son molti) che disperando di poter far bene al mondo, si
contentano del ritiro, e di praticare la virtù verso se stessi. Da che la
perfezione del Cristiano è relativa a se stesso, (e tale ella è nel vero ed
intero spirito del Cristianesimo), da che l’esser perfetto include la [1687]fuga
delle tentazioni, vale a dire del mondo, da che per conseguenza il ritiro è il
più perfetto stato dell’uomo, il Cristianesimo è distruttivo della società. Non
può infatti essere relativa al bene della società la perfezion di una
religione, che loda il celibato, il che dimostra ch’ella ripone la perfezion
dell’uomo in una cosa affatto indipendente dalla società (anche de’ più cari),
e fuori al tutto di essa; in un tipo astratto che non ha niente affare col
diriggere le mire dell’individuo al vantaggio comune. Una tal religione doveva
anche necessariamente lodare la solitudine, e l’uomo secondo essa, doveva (com’è
infatti) esser tanto più perfetto quanto meno partecipasse delle cose umane e
colle opere e co’ pensieri: giacchè il perfetto Cristiano non è perfetto che in
se stesso. Si vede da ciò, che il Cristianesimo non ha trovato altro mezzo di
corregger la vita che distruggerla, facendola riguardar come un nulla anzi un
male, e indirizzando la mira dell’uomo perfetto, fuori di essa, ad un tipo di
perfezione indipendente da lei, a cose [1688]di natura affatto diversa
da quella delle cose nostre e dell’uomo.
Le
immaginazioni calde (come son quelle de’ fanciulli più o meno) in forza della
somma tendenza dell’animale a’ suoi simili, trovano da per tutto delle forme
simili alle umane. Ma notate che sebbene si troverebbe facilmente maggiore
analogia fra le altre parti dell’uomo e i diversi oggetti materiali, che fra
questi e la fisonomia umana, nondimeno l’immaginazione trova sempre in essi
oggetti, maggiore analogia col volto dell’uomo che colle altre parti, anzi a queste
neppur pensa. V. il mio discorso sui romantici. Tanto è vero che la principal
parte dell’uomo riguardo all’uomo è il volto.
(13.
Sett. 1821.)
Si parla
tuttogiorno di convenienze. E si crede ch’elle sieno fisse, universali,
invariabili, e su di loro si fonda tutto il buon gusto. Or quante cose che sono
convenienti, e quindi belle, e quindi di buon gusto in Italia, non lo sono in
Francia, ne’ costumi, nel tratto, nello scrivere, nel teatro, nell’eloquenza,
nella poesia ec. Dante non è egli un [1689]mostro per li francesi nelle
sue più belle parti; un Dio per noi? Così discorrete, e su questo esempio
ragionate di tutte le possibili convenienze in ordine al confronto delle idee
che noi o altre nazioni ne hanno, con quelle che ne hanno i francesi.
(13. Sett.
1821.)
A ciò
che ho detto altrove che la semplicità è relativa, aggiungete che oggi per
esempio sarebbe bruttissimo uno stile semplice al modo di Senofonte, o de’
nostri trecentisti, ancorchè inaffettato, e composto di voci e frasi niente
anticate. La semplicità d’oggi è diversissima da quella d’allora, e di un grado
molto minore. Cosa che non s’intende da coloro che raccomandano l’imitazione
degli antichi.
(13.
Sett. 1821.)
Alla
p.1658. principio. A questa osservazione si può riferire l’utilità de’ versi
per ritenere le cose a memoria ec. Osservate ancora. I suoni son cose
materiali, ma poco materiali in quanto suoni, e tengono quasi dello spirito,
perchè non cadono sotto altro senso che dell’udito, impercettibili alla vista e
al tatto, che sono i sensi più materiali dell’uomo. Se per tanto ad uno che non
sappia [1690]di musica, o non ne sappia abbastanza, tu vorrai dare ad
intendere il meccanismo di un’aria, l’analisi, le differenze, le gradazioni de’
suoi tuoni mediante il solo udito, difficilmente riuscirai. Ma facendogliela
quasi vedere sul piano-forte (o scritta ec.) e materializzandogli in questo
modo i tuoni, le loro distinzioni, e posizioni, egli concepirà
facilmente ogni cosa, e potrà anche (benchè non s’intenda di musica) eseguir
quell’aria a voce dopo averla veduta, con più sicurezza ec. che dopo
averla solamente udita. E generalmente parlando si può dire che la chiarezza
dell’espressione di qualsivoglia idea, o insegnamento, consiste nel
materializzarlo alla meglio, o ravvicinarlo alla materia, con similitudini, con
metafore, o comunque.
(13.
Sett. 1821.)
Alla
p.1656. principio. La malinconia per es. fa veder le cose e le verità (così
dette) in aspetto diversissimo e contrarissimo a quello in cui le fa vedere l’allegria.
V’è anche uno stato di mezzo che le fa pur vedere al suo modo, cioè la noia. E
l’allegro e il malinconico ec. (sieno pur due pensatori e filosofi, o uno
stesso filosofo in due diversi tempi e stati) sono persuasissimi di [1691]vedere
il vero, ed hanno le loro convincenti ragioni per crederlo. Vero è pur troppo
che astrattamente parlando, l’amica della verità, la luce per discoprirla, la
meno soggetta ad errare è la malinconia e soprattutto la noia; ed il vero
filosofo nello stato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il
vero sia bello o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare, e
consolarsene, o che sia conveniente di dar qualche sostanza alle cose, che
veramente non l’hanno.
(13.
Sett. 1821.). V. p.1694. fine.
Alla
p.1132. Del resto che un antichissimo caps o altro simile monosillabo
sia la radice di caput, si conferma dal vedere che in fatti la parte
radicale e primitiva di questa voce, non è se non cap, sola che risponda
alla voce greca kefal¯, cioè alla sua prima parte kef (Il f era anticamente un p come
altrove ho già detto. O piuttosto non esisteva il f, ma solo il p che si adoperava in suo luogo, e poi aspirandosi si
scriveva ph e quindi f.).
(13.
Sett. 1821.)
Voi
altri riformatori dello spirito umano, e dell’opera della natura, voi altri
predicatori della ragione, provatevi un poco a [1692]fare un romanzo, un
poema ec. il cui protagonista si finga perfettissimo e straordinario in tutte
le parti morali, e dipendenti dall’uomo, e imperfetto o men che perfetto nelle
parti fisiche, dove l’uomo non ha per se verun merito. Di che si parla in
questo secolo sì spirituale massime in letteratura che oramai par che sdegni
tutto ciò che sa di corporeo, di che si parla, dico, ne’ poemi, ne’ romanzi,
nelle opere tutte d’immaginazione e sentimento, fuorchè di bellezza del corpo?
Questa è la prima condizione in un personaggio che si vuol fare interessante.
La
perfettibilità dell’uomo, come altrove ho detto, non ha che fare col corpo. E
contuttociò la perfezione del corpo, che non dipende dagli uomini nè è opera
della ragione, si è la principal condizione che si ricerca in un eroe di poema
ec. (o si dee supporre, perchè ogni menoma imperfezione corporale suppostagli
guasterebbe ogni effetto) e la più efficace, supponendolo ancora perfetto nello
spirito. Questa circostanza non si può tacere; quando anche si taccia, la
supplirà il lettore; ma fare espressamente un protagonista brutto, è lo stesso
che rinunziare a qualsivoglia effetto. (V. ciò che dico in tal proposito dove
parlo della compassione). Mad. di Staël non era bella: in un’anima come la sua,
questa circostanza avrà prodotto mille pensieri e sentimenti sublimi,
nuovissimi a scriverli, profondissimi, sentimentalissimi: (così di Virgilio
pretende Chateaubriand) ella amava sopra tutto l’originalità, e poco teneva il
buon [1693]gusto (v. Allemagne tome 1. ch. dernier): ella, come tutti i
grandi, dipingeva ne’ suoi romanzi il suo cuore, i suoi casi, e però si serve
di donne per li principali effetti; nondimeno si guarda bene di far brutti o
men che belli i suoi eroi o le sue eroine. Tutto lo spregiudizio, tutto l’ardire,
tutta l’originalità di un autore in qualsivoglia tempo non può giunger fin qua.
Che cosa è la bellezza? lo stesso in fondo, che la nobiltà e la ricchezza: dono
del caso? È egli punto meno pregevole un uomo sensibile e grande, perchè non è
bello? Quale inferiorità di vero merito si trova nel più brutto degli uomini
verso il più bello? Eppure non solamente lo scrittore o il poeta si deve guardare
dal fingerlo brutto, ma deve anche guardarsi da entrare in comparazioni sulla
sua bellezza. Ogni effetto svanirebbe se parlando o di se stesso (come fa il
Petrarca) o del suo eroe, l’autore dicesse ch’egli era sfortunato nel tale
amore perchè le sue forme, o anche il suo tratto e maniere esteriori (cosa al
tutto corporea) non piacevano all’amata, o perch’egli era men bello di un suo
rivale ec. ec. Che cosa è dunque il mondo fuorchè [1694]NATURA? Ho detto
che l’intelletto umano è materiale in tutte le sue operazioni e concezioni. La
teoria stessa dell’intelletto si deve applicare al cuore e alla fantasia. La
virtù, il sentimento, i più grandi pregi morali, le qualità dell’uomo le più
pure, le più sublimi, infinite, le più immensamente lontane in apparenza dalla
materia, non si amano, non fanno effetto veruno se non come materia, e in
quanto materiali. Divideteli dalla bellezza, o dalle maniere esteriori, non si
sente più nulla in essi. Il cuore può bene immaginarsi di amare lo spirito, o
di sentir qualche cosa d’immateriale: ma assolutamente s’inganna.
Così
accade in certo modo riguardo allo stile e alle parole, che sono, come ben dice
Pindemonte, non la veste, ma il corpo de’ pensieri. E quanto prevalga l’effetto
dello stile a quello de’ pensieri, (benchè spessissimo il lettore non se ne
accorga, nè sappia distinguere le cose dalle parole, ed attribuisca a’ soli
pensieri l’effetto che prova, nel che in gran parte consiste l’arte dello
stile) interrogatene la storia d’ogni letteratura.
(13.
Sett. 1821.)
Alla
p.1691. Non parlo della eloquenza, e della sua forza di persuader l’uomo di ciò
che vuole. Ma quante volte, leggendo p.e. un [1695]filosofo, siamo al
tutto del suo avviso, e poi leggendone uno contrario, mutiamo parere, e
tornando a leggere il primo, o altro dello stesso sentimento, ripigliamo la
prima opinione ec. Questa è cosa che accade tutto giorno, o nel leggere o nel
discorrere, o si tratti di sentimenti contrarii, o discordi, o non consentanei
in tutto o in parte; ed accade anche all’uomo riflessivo ed attento e profondo
e libero nel pensare, cioè non facile a esser mosso nè solito dar peso all’autorità,
ed al parere altrui, di quelli ch’ei legge, ode ec.
Forza
dell’assuefazione sull’idea della convenienza. L’uso ha introdotto che il poeta
scriva in verso. Ciò non è della sostanza nè della poesia, nè del suo
linguaggio, e modo di esprimer le cose. Vero è che questo linguaggio e modo, e
le cose che il poeta dice, essendo al tutto divise dalle ordinarie, è molto
conveniente, e giova moltissimo all’effetto, ch’egli impieghi un ritmo ec.
diviso dal volgare e comune, con cui si esprimono le cose alla maniera ch’elle
sono, e che si sogliono considerare nella vita. Lascio poi l’utilità dell’armonia
ec. Ma in sostanza, e per se stessa, la poesia non è legata al [1696]verso.
E pure fuor del verso, gli ardimenti, le metafore, le immagini, i concetti,
tutto bisogna che prenda un carattere più piano, se si vuole sfuggire il
disgusto dell’affettazione, e il senso della sconvenienza di ciò che si chiama
troppo poetico per la prosa, benchè il poetico, in tutta l’estensione del
termine, non includa punto l’idea nè la necessità del verso, nè di veruna
melodia. L’uomo potrebb’esser poeta caldissimo in prosa, senza veruna
sconvenienza assoluta: e quella prosa, che sarebbe poesia, potrebbe senza
nessuna sconvenienza assumere interissimamente il linguaggio, il modo, e tutti
i possibili caratteri del poeta. Ma l’assuefazione contraria ed antichissima
(originata forse da ciò che i poeti si animavano a comporre colla musica, e
componevano secondo essa, a misura, e cantando, e quindi verseggiando, cosa
molto naturale) c’impedisce di trovar conveniente una cosa che nè in se stessa
nè nella natura del linguaggio umano, o dello spirito poetico, o dell’uomo, o
delle cose, rinchiude niuna discordanza. [1697]
(14.
Sett. 1821.)
Alla
p.1676. fine. Parimente si può dire che tutte le assuefazioni, e quindi tutte
le cognizioni, e tutte le facoltà umane, non sono altro che imitazione. La
memoria non è che un’imitazione della sensazione passata, e le ricordanze
successive, imitazioni delle ricordanze passate. La memoria (cioè insomma l’intelletto)
è quasi imitatrice di se stessa. Come s’impara se non imitando? Colui che
insegna (sia cose materiali, sia cose immateriali) non insegna che ad imitare
più in grande o più in piccolo, più strettamente o più largamente. Qualunque
abilità materiale che si acquista per insegnamento, si acquista per sola
imitazione. Quelle che si acquistano da se, si acquistano mediante successive
esperienze a cui l’uomo va attendendo, e poi imitandole, e nell’imitarle,
acquistando pratica, e imitandole meglio finch’egli vi si perfeziona. Così dico
delle facoltà intellettuali. La stessa facoltà del pensiero, la stessa facoltà
inventiva o perfezionativa in qualunque genere materiale o spirituale, non è
che una facoltà d’imitazione, non particolare ma generale. L’uomo imita [1698]anche
inventando, ma in maniera più larga, cioè imita le invenzioni con altre
invenzioni, e non acquista la facoltà inventiva (che par tutto l’opposto della
imitativa) se non a forza d’imitazioni, ed imita nel tempo stesso che esercita
detta facoltà inventiva, ed essa stessa è veramente imitativa. V. la p.1540.
fine, e segg.
(14.
Sett. 1821.)
Alla
p.1605. principio. Da tutto ciò risulta che l’uomo tal quale è in natura non
piacerebbe all’uomo d’oggidì nè gli parrebbe bello; che l’idee naturali (cioè
derivanti dalla natura) circa il bello umano (ch’è pure il meno soggetto a
dispareri) discordano sommamente dalle nostre: che massimamente poi la donna
tal qual ell’era bella in natura, e la più bella che si possa immaginare, non
piacerebbe punto all’uomo moderno. Perocchè il fondamento della bellezza umana
è il vigore, il quale nella natura peccherebbe e dispiacerebbe alle donne
moderne per il troppo, ma non per il poco. Ma il fondamento della bellezza
femminile essendo la delicatezza, questa in natura peccherebbe [1699]per
noi di troppo poco. Ed essendo propria sì dell’uomo che della donna naturale la
così detta rozzezza, questa sconverrebbe meno (secondo le nostre opinioni) all’uomo
che alla donna, perchè in questa più, in quello meno lontana dalle qualità
fondamentali della loro bellezza. ec. ec. ec.
Del
resto che cosa è dunque il buon gusto? Qual tipo ha egli? La natura? Anzi ella
ci ha fatti diversissimi da quel che siamo, e quindi datoci diversissimi gusti.
E ciò non solo nelle forme umane, ma in ordine a tutti gli oggetti del buon
gusto. ec. ec. ec.
(14.
Sett. 1821.)
Alla p.1562. fine. Non si dà salvatichezza in natura. Bensì per noi. Ciò vuol dire che non siamo quali dovevamo. Quello che per noi è salvatico, o non doveva servirci, e non era destinato all’uomo, o non è salvatico se non perchè noi siamo civili, e incapaci quindi di servircene come avremmo dovuto, e come la natura avea destinato. Non si nega che la coltura, i nesti ec. non migliorino le piante le frutta, e le razze loro, molte delle quali